Tuttolibri, 29 aprile 2023
Kafka raccontato da Klaus Wagenbach
Difficile immaginare la vita dell’editore berlinese Klaus Wagenbach, morto novantunenne nel 2021, senza Franz Kafka. Era stato il tema della sua tesi di laurea nel lontano 1957 e l’anno dopo diventò uno splendido libro sugli anni della giovinezza dello scrittore praghese. Un autore da cui non si separò mai anche dopo aver militato attivamente nella sinistra extraparlamentare e aver fondato l’omonima casa editrice che pubblicò fra l’altro i lieder del dissidente Wolf Biermann e molta letteratura italiana contemporanea. Si definiva con un guizzo autoironico la «più anziana vedova vivente di Kafka» avendo collezionato cimeli dell’autore e centinaia di fotografie di lui e del suo mondo. Materiale illustrativo che arricchisce anche il suo volume Kafka. Una battaglia per l’esistenza riproposto ora dal Saggiatore nella versione di Ervino Pocar rivisitata da Sara Panzera. Una biografia del lontano 1964 ricca di dettagli, che nulla ha perso del suo carattere coinvolgente e appassionato. Wagenbach ha il tocco sciolto e leggero dello scrittore, ma lascia non di rado che sia il protagonista a parlare attraverso i Diari e le lettere in cui circoscrive lo spazio di un’esistenza che non conosce altra strada che la letteratura: come ricerca, testimonianza, affermazione contro le disfatte della vita, luogo di colpa e attesa di redenzione. Proprio lui, nato a Praga nel luglio del 1883, da cui si allontanò raramente, conducendo un’esistenza piuttosto chiusa e provinciale senza grandi esperienze né contatti con i maggiori scrittori austriaci dell’epoca, lasciò in eredità alla cultura del Novecento, come ricorda Wagenbach, indelebili immagini letterarie: dal commesso viaggiatore Gregor Samsa trasformato in scarafaggio a Joseph K., protagonista e vittima innocente del Processo, all’agrimensore K. nel romanzo Il castello, invischiato in una perpetua lotta con il potere.
Immagini scaturite in realtà dalla sua stessa esistenza: il problematico rapporto col padre, di cui dà ampia e sofferta testimonianza la Lettera del novembre 1919, e la chiusura progressiva verso il mondo esterno nell’attesa di un’esistenza che si presenti come un sogno, «un che di sospeso». Salvo poi sviluppare, soprattutto negli ultimi anni, un sentimento di colpa verso una vita non vissuta, ma giustificata solo dalla scrittura. E non sarà sufficiente nemmeno l’amicizia con lo scrittore Max Brod, che lo introduce nei caffè e nel mondo dei letterati praghesi, a scuoterlo dal suo isolamento che pur gli permise di interessarsi del socialismo e del mondo degli ebrei orientali e di lavorare per quasi quindici anni, fino al prematuro pensionamento nel 1922, presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del regno di Boemia. Ma il desiderio infinito di libertà conduce da ultimo a una sorta di «petrificazione» che gli fa scrivere nel Diario: «Meglio mettere il paraocchi e percorrere la mia strada fino all’estremo..». Proprio allora nascono alcune delle opere maggiori, di notte quando la paura non lo lascia dormire: i racconti La condanna e La metamorfosi e alcuni capitoli del Disperso, titolo che Brod, suo esecutore testamentario, pubblicò poi con il titolo America.
Anche i rapporti sentimentali di Kafka - forse la parte più suggestiva del libro – sono vissuti patologicamente. I fidanzamenti con l’ebrea Felice Bauer, la latente seduzione di Grete Bloch o della giovane ceca Julie Wohryzek, la passione verso la giornalista Milena Jesenska, definita «un fuoco vivo», o il legame finale con la figura calda e protettiva di Dora Diamant sono tappe verso una solitudine annichilente. «Qualsiasi vincolo che non è creato da me stesso – scrive Kafka a Felice nel 1916 -, foss’anche contro parti del mio io, è senza valore, m’impedisce di avanzare, lo odio e sono molto vicino a detestarlo». Lo scrittore sembra incapace di accettare il disordine e l’ebbrezza dei sensi: non è dunque un caso che la figura femminile diventi cardine del romanzo Il castello convogliando in sé l’ ambiguità dell’eros legato al caos e alla vertigine. Perfino la tubercolosi polmonare diagnosticatagli nel 1917, che lo obbligherà a soggiornare in vari sanatori, gli appare come una liberazione da tutti gli obblighi professionali e matrimoniali. Si ritirerà per alcuni mesi a Zürau, un paesino della Boemia presso Ottla, la più amata delle sue tre sorelle, per poi riprendere a scrivere a Praga, una mammina con gli artigli, come l’aveva definita un tempo.
La vita di Franz Kafka è colta dall’interno, nelle sue drammatiche sfumature, e il lettore la ripercorre come un magico viaggio nel tempo in una sorta di dolorosa simbiosi. Fino al settembre del 1923, quando lo scrittore si recò a Berlino con la giovane ebrea Dora Diamant, con la quale visse per alcuni mesi. All’amico Brod confessò: «Sono riuscito a sfuggire ai demoni, questo trasloco a Berlino è stato una cosa meravigliosa, adesso mi cercano ma non mi trovano». Ma la malattia non gli lasciò tregua e mise fine anche a quei giorni che sapevano di futuro. Del resto, come scrisse in un frammento, «io non ho speranza di vittoria e la lotta non mi dà gioia in sé, ma solo perché è l’unica cosa che si ha da fare».