Corriere della Sera, 30 aprile 2023
Arriva il nuovo Zingarelli
«Un po’ più, un po’ meno, un po’ prima, un po’ dopo». Quando l’ormai novantenne Ruggero Bauli rivelò a un cronista di Verona quale fosse il segreto del pandoro che aveva fatto la sua fortuna dopo essere scampato in gioventù al naufragio del Principessa Mafalda non voleva affatto essere evasivo. Non era questione di ingredienti: farina, uova, zucchero... A disposizione di tutti. Come i colori, le parole, le note musicali... Metterli insieme: quella è l’arte. E bacia i pittori, i poeti, i musicisti. Questione di dettagli. Sfumature.
«Parton leggieri e pronti/ dal petto i miei pensieri», scrive Lorenzo de’ Medici nella celebre Ballata. E lo stesso Gabriele d’Annunzio prende a prestito quell’incipit, raccontano Cristina Montagnani e Pierandrea De Lorenzo (Come lavorava D’Annunzio, Carocci) per accreditare l’idea di scrivere così, di getto, spinto dalla sua musa ispiratrice, tutto chiaro, tutto liscio, tutto in testa, ma in realtà «scrive su fogli sciolti, e sulla scrivania ha poi altre carte, sempre gruppi di fogli sciolti, su cui prova e riprova un sintagma, risolve un verso o una rima inceppata, studia un giro di frase e una strofa. Carte quindi molto travagliate, sofferte, pasticciate, che il poeta, appena giunge a una redazione soddisfacente, getta nel cestino». Via, che non resti traccia di dubbi...
E se era così per il Vate, immaginate gli altri. Il manoscritto de L’Infinito di Giacomo Leopardi conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli mostra già in poche righe un paio di ritocchi. Nei primi e celeberrimi versi («Sempre caro mi fu quest’ermo colle,/ e questa siepe, che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude...») l’«ultimo orizzonte» rimpiazza il «celeste confine» e verso la fine l’«immensità» è rivista in «infinità». Piccole ma centrali correzioni destinate a essere studiate per decenni. Una quarantina d’anni dopo l’editore Auguste Poulet-Malassis perde la pazienza per la pignoleria di Charles Baudelaire: «Mio caro Baudelaire, da due mesi stiamo rileggendo Les Fleurs du Mal e ne abbiamo stampato solo cinque pagine». L’autore, racconterà Anais Ginori che la rilettura durò quattro mesi, è «un maniaco della precisione, un perfezionista, correttore di se stesso a oltranza. Le bozze di stampa del 1857 sono un campo di battaglia. Note a margine, passaggi sbarrati, altri aggiunti, dubbi, intuizioni, commenti per l’editore e il tipografo. Baudelaire controlla tutto, non solo i suoi versi, ma anche la grafica, l’impaginazione, la grandezza dei caratteri...».
Non molto meno patiranno infinite attese gli editori de La Recherche di Marcel Proust e più ancora, forse, dell’Ulysses di James Joyce. Poche pagine dei quaderni oggi visibili online dicono tutto: un incubo. Al punto che davanti a 56 correzioni e correzioni delle correzioni precedenti in rosso, nero o blu ammucchiate in due paginette appare lampante che il grande scrittore irlandese fu costretto a fermarsi talora perché non c’era il più piccolo spazio vuoto dove infilare una sillaba, e ti chiedi come fece quel libro ad arrivare alla stampa. Basti dire che i dilettanti incaricati dall’autore di trascrivere quei quaderni fecero un’infinità di pasticci. Finché nel 1986 uscì la notizia che il responsabile di una nuova edizione del capolavoro, Richard Ellmann, aveva dichiarato che «se Joyce aveva impiegato sette anni a scrivere l’Ulisse, ce n’erano voluti altri 44 per rintracciare tutti gli errori di trascrizione: oltre cinquemila». Il che aveva reso l’opera, già «difficile», qua e là incomprensibile. Domanda: se avessero avuto a disposizione un computer per poter correggere e ricorreggere ogni parola all’infinito certi geni della letteratura avrebbero mai finito le loro peregrinazioni alla ricerca del testo «perfetto» con la parola esatta al posto esatto? Mah...
È una curiosità che stuzzica. Tanto più oggi che sta per uscire, il 2 maggio, lo Zingarelli 2024. Nuova edizione dello storico dizionario di Nicola Zingarelli edito da Zanichelli che promette nella versione di carta (2.688 pagine, «145.000 voci, oltre 380.000 significati fra cui circa 1000 nuove parole e locuzioni o nuovi significati, oltre 5.500 parole dell’italiano fondamentale...») e più ancora in quella digitale, un’offerta di parole, sinonimi e variabili di ogni genere in grado di accontentare (forse) perfino quei perfezionisti incontentabili di cui dicevamo.
A partire dalle new entry (come i lemmi «armocromia» appena evocata da Elly Schlein o «complessificare» evocato dalla nostra burocrazia) e dallo spazio dato a un migliaio di sfumature. Esempio? «Abbondante – ricco – lauto – opulento. Abbondante è ciò che esiste in grande quantità, è copioso. Anche ricco indica abbondanza di qualcosa, ma esprime grande disponibilità soprattutto di denaro. Lauto è ciò che è abbondante e nello stesso tempo splendido, sontuoso. Opulento è ciò che è molto abbondante e talmente ricco, dovizioso da sfiorare lo spreco o l’eccesso».
L’obiettivo? «Fare riscoprire il vocabolario ai ragazzi che oggi usano soprattutto negli scambi di Sms e WhatsApp una lingua sempre più povera ed elementare così come ai docenti che non sempre hanno chiaro come l’uso del dizionario possa essere utilissimo nel loro lavoro e nel loro rapporto con gli allievi», spiega il lessicologo Mario Cannella che da quarant’anni cura lo Zingarelli e con Beata Lazzarini e Andrea Zaninello ha curato anche questo. A farla corta «bisogna andare oltre l’uso “apri e chiudi” di una volta. Se devi toglierti il dubbio sull’ortografia di una parola basta andare su Google. Ma se vuoi capirla, quella parola, devi andare sul dizionario».
Ma quale dizionario? Quello più aperto, rispondeva Gabriel García Márquez, che lavorava nel suo studio a Città del Messico circondato da decine di diversi vocabolari di diversi settori e diverse lingue per attingere qua e là tutto ciò che gli serviva per raccontare le sue storie straricche di fantasie apparentemente spontanee e buttate lì di getto: «Per me, l’idioma migliore non è quello più puro, ma quello più vivo. Ossia, il più impuro». Lui, colombiano, scrisse sul «Corriere» nel 1981, amava quello messicano, «il più immaginoso, il più espressivo, il più flessibile forse perché è la lingua d’emergenza di una nazione che dimenticò gli idiomi nazionali antichi e al tempo stesso imparò male quello che portò Hernán Cortés. La sintesi raggiunge a volte dimensioni magiche».
Quanto sia fondamentale questo rilancio del vocabolario (secondo Jean Cocteau ogni capolavoro letterario altro non è, in estrema sintesi, che «un dizionario in disordine») e quanto sia indispensabile per il futuro stesso del nostro Paese, lo ricordava tre anni fa in Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua, il linguista Massimo Arcangeli spiegando che tra centinaia di aspiranti alla laurea l’uso del lemma «solerte» («che adempie alle proprie mansioni con cura, diligenza, attenzione» sullo Zingarelli) era assurdo: «Una preghiera solerte», «Mio fratello ha fatto un giuramento solerte», «Solerte mi alzano di prima mattina». Per non dire di «apodittico» (evidente, irrefutabile): «Su 176 matricole universitarie testate nel 2019 ben 175 non han saputo indicare nessun sinonimo». Figurarsi le sfumature.
Peccato. Non solo perché come spiegò Stendhal ne La Certosa di Parma narrando di come Fabrizio recluso vede Clelia «l’amore coglie sfumature invisibili a un occhio indifferente e ne trae conseguenze infinite». Ma anche perché in un Paese come il nostro, così spaccato tra amici e nemici posseduti gli uni e gli altri da schemi, rancori e odii insuperabili, la perdita delle sfumature è ogni giorno più grave. E il loro recupero avrebbe una dimensione perfino etica.