il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2023
Il problema della rete di Tim, spiegato
Èun dejà vù, ma d’altronde è la storia di Tim degli ultimi anni. Il colosso è di nuovo in stallo, il suo primo azionista, Vivendi, vuole cacciare l’ad e il governo non sa come uscirne mentre si arena il progetto della società della rete. Insomma, ci risiamo, ma va detto che ormai la paralisi è tale che Giorgia Meloni pare aver capito di dover prendere in mano il dossier, visto il nulla messo in piedi dai suoi ministri e sottosegretari in sei mesi. Per dare l’idea della confusione, venerdì Palazzo Chigi ha fatto smentire all’Adnkronos la notizia di un incontro tra l’Ad di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine, e il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, braccio destro della premier.
Lo stallo nasce dal sostanziale fallimento della strategia di scorporare la rete di Tim dalla parte servizi e vendere la prima coinvolgendo i fondi esteri, soggetti che non dovrebbero mai entrare in un’infrastruttura strategica, come mostra il caso Autostrade. Il 4 maggio il cda di Tim dovrà decidere se proseguire con una delle due offerte arrivate, già oggetto di rilancio: quella di Cassa depositi e prestiti col fondo australiano Macquarie e quella del fondo Usa Kkr.
Senza entrare nei tecnicismi, il problema è che entrambe si equivalgono – 19 miliardi di euro e rotti – ed entrambe sono troppo basse. In termini finanziari sono sottostimate di 3-4 miliardi, ma i fondi si tengono stretti perché non vogliono rinunciare ai rendimenti a doppia cifra su cui impostano i loro investimenti (un “ritorno sul capitale investito” intorno al 13%). Il problema è che con i rialzi dei tassi, il costo della leva finanziaria (cioè l’indebitamento) è salito: o rinunci a un po’ di profitti o abbassi il prezzo e i fondi hanno scelto la seconda opzione. Nel caso di Cdp-Macquarie c’è poi il rifiuto per la controparte pubblica di accontentare Vivendi, che ha già bocciato entrambe le offerte ritenute troppo basse e con il suo 24% del capitale può bloccare in assemblea straordinaria qualsiasi operazione.
Anche a non voler assecondare le richieste dei francesi (almeno 26 miliardi), il problema resta: entrambe le offerte prevedono che la società della rete (NetCo) porti con sé solo una piccola parte dei dipendenti e del maxi debito del colosso. La Tim “servizi” resterebbe con 26 mila dipendenti e 13-14 miliardi di debito, troppi per generare margini in un mercato iper-concorrenziale come le Tlc e con i tassi che drenano liquidità. È per questo che il cda del giovedì prossimo si dovrebbe concludere con la sostanziale bocciatura delle offerte: verranno considerate insufficienti ma tenendo la porta aperta con “ulteriori approfondimenti”. Si butterà la palla in avanti, il vero spartito su cui da decenni si suona la tarantella della “rete” e dei destini di Tim.
Come uscire dallo stallo? Vivendi ha deciso di risolverla alla sua maniera: vuol cacciare l’ad Pietro Labriola che meno di un anno e mezzo fa ha contribuito a portare in sella silurando Luigi Gubitosi. Al momento, però, non ha la forza per farlo. Labriola non ha la sponda del governo, ma non ha nemmeno intenzione di lasciare, anche perché a giugno scadono quasi 2 miliardi di debiti di Tim che vanno rinegoziati.
Il manager è spettatore dei suoi destini, ma il problema è che lo è anche il governo, incapace di impostare una strategia. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, e quello del Tesoro, Giancarlo Giorgetti, si sono trincerati dietro la volontà di non disturbare “un’operazione di mercato”, che però è naufragata. Per questo Meloni avrebbe deciso di mettere mano al dossier. Preso atto che la strategia delle offerte con i fondi non porta lontano, l’alternativa che inizia a circolare negli ambienti romani è quella di coinvolgere una partecipata pubblica come Poste per rilevare le azioni di Vivendi e Cdp (seconda azionista di Tim col 9,8%) con un meccanismo che eviti l’obbligo di Opa.
La strada è molto in salita, ma almeno è un segnale di vita, anche se va convinta Vivendi e scontenta i fondi. Macquarie e Cdp peraltro hanno un problema più urgente che si chiama Open Fiber, la società controllata dalla Cassa e di cui gli australiani hanno il 40%, messa in piedi nel 2016 dal governo Renzi per sfidare proprio Tim sulla rete. Oggi arranca sotto il peso di 4,6 miliardi di debiti (25 volte il margine lordo) ed è in enorme ritardo nei cantieri da cablare. Doveva fondersi con la rete di Tim, ma l’ipotesi è naufragata per il no dell’Antitrust Ue: oggi è un bagno di sangue. Le banche hanno chiesto ai soci di metterci altri 400 milioni,