Il Messaggero, 30 aprile 2023
Biografia di Rocco Papaleo raccontata da lui stessa
Nel suo quarto film da attore-regista, Scordato, da pochi giorni nelle sale, Rocco Papaleo interpreta Orlando, un accordatore di pianoforti solo, che ha lasciato il suo paesino d’origine - Lauria (Potenza), lo stesso dove lui è nato e cresciuto - ed è più o meno in conflitto con tutto quello che lo circonda, oltre a soffrire di feroci mal di schiena. Papaleo l’ha scritto durante il lockdown, adesso ne parla al telefono da Ventotene (Latina), dove due giorni fa è arrivato per interpretare Un altro Ferragosto di Paolo Virzì, il seguito di Ferie d’agosto del 1996 (lui c’era anche nel primo capitolo).
Quando ha iniziato a lavorare al suo film cosa doveva aggiustare dentro di sé?
«Non lo so, e anche adesso non credo di averlo capito. Il mio personaggio sì, io no. Lui alla fine riesce a sorridere, mette a fuoco quanto è importante perdonare, e liberarsi del rancore».
Lei è rancoroso?
«Meno di prima. I torti, anche professionali, un tempo facevo fatica a superarli».
Qualche anno fa ha detto che da giovane voleva andarsene a tutti i costi dal suo paese, Lauria, se n’è andato, e poi ha capito di voler tornare: l’ha fatto?
«In parte. Nel 2018 è morta mia madre, e così da Roma ho iniziato ad andare giù in maniera diversa, più libera. La frattura tra ciò che ero e ciò che sono ha iniziato a ricomporsi. Io per un periodo avevo ripudiato le mie radici: quel modo di essere paesano spesso genera un complesso di inferiorità, diventa qualcosa da nascondere, mentre oggi per me è un vanto».
A vent’anni aveva messo a fuoco i suoi sogni da realizzare?
«No. Nella mia vita tutto è successo per caso. Non sono uno che ha fatto grandi scelte e poi le ha perseguite con determinazione. Ero un pessimo studente universitario, di ingegneria prima e di matematica poi, che strimpellava la chitarra».
E come c’è arrivato fin qui?
«Grazie agli incontri. Sono stato molto fortunato. Giovanni Veronesi mi ha visto canticchiare a una festa e ha fatto il mio nome a Leonardo Pieraccioni per il suo
I laureati, il mio primo film. È iniziato tutto così. Non sono mai stato un grande stratega della mia vita».
Con le tante cose che ha fatto, pensa di aver raccolto il giusto?
«Ho avuto tantissimo. A tutti capita di bere, però».
Che c’entra?
«Con un po’ di ebbrezza alcolica forse potrei mettere da parte un po’ di pudore, che non è modestia, e dire che mi sento non dico sottovalutato ma valutato diversamente rispetto a quello che poi sono in realtà».
Per bere è un po’ presto - sono le 10 del mattino - ma provi a spiegarsi meglio.
«Ho l’allure dell’attore comico, che mi ha dato tanto, ma sono un attore che può fare tutto. Questa aspettativa mi penalizza soprattutto quando faccio altro, per esempio i miei film da regista che non sono solo quella cosa lì».
E cosa sono?
«Più o meno quello che mi piace vedere da spettatore. E grazie ai quali spero che venga fuori la complessità della mia natura, che non vuol dire masturbazione intellettuale, ma qualcosa in più dei fuochi d’artificio comici. Mi piace emozionare e commuovere. Ormai ho una certa età e sono più incline alla lacrima. Quando mi scappa credo di provare sentimenti migliori».
L’ultima volta che le è successo?
«Dieci minuti fa. Dopo tanto tempo ho rivisto due amici e colleghi come Lele Vannoli e Silvio Vannucci. Ognuno ha raccontato una sintesi della propria vita e mi sono emozionato».
Lei come se la passa?
«Sono abbastanza in pace con me stesso, ma se guardo fuori dal mio metro quadrato non mi piace niente».
Ai suoi genitori è riuscito a dire tutto o è rimasto in sospeso qualcosa?
«Tutto quello che si poteva dire, sì. Papà è morto trent’anni fa, e verso la fine mi prese da parte e - siccome c’erano delle ruggini con alcuni familiari - mi parlò di pacificazione. Mi disse di guardare oltre e risolvere i contrasti. Fu l’unico vero discorso che mi fece, ma fu bello. A mia madre invece ho sempre raccontato tutto, tranne dei miei rapporti un po’ agitati con le d
onne».
Il successo, per caso, l’ha fatto diventare il più bello di Lauria?
«Quello abbellisce sempre, si sa. E fa anche venire il fascino, ma non parlerei
di metamorfosi...».
È stato sposato per tre anni con la scenografa Sonia Peng, madre di suo figlio Nicola, 25 anni, e poi ha avuto un’altra relazione, anche questa di tre anni: dove cade con le donne? Che succede a un certo punto?
«Mi annoio e forse anch’io, dentro le mura di casa, divento noioso. Non sono un grande esperto di convivenze, ne ho avute solo due, però oggi mi piace pensare di non aver mai trovato l’incastro giusto. Che forse esiste. Con la mia ex comunque vado d’accordo, con nostro figlio siamo un trio. Lavoriamo anche insieme. Nicola fa l’attrezzista».
Ora è signorino o accasato?
«Sono signorino».
Nel suo film ha fatto debuttare la cantante Giorgia: è vero che ne è innamorato da sempre?
«Ormai da trent’anni. Per me è la donna ideale, ma non mi sono mai fatto avanti, non le ho mai detto nulla, tipo "Ti amo" o "Scappiamo insieme". Zero. Ma non voglio definirlo amore platonico, sarebbe riduttivo».
Il grande errore della vita qual è stato?
«Non saprei. Mi viene in mente tuffarsi da scogli molto alti: da ragazzino potevo finire malissimo».
È mai stato vicino a un possibile deragliamento?
«No. Sono un po’ pavido. Alcol, droghe e lotte politiche le ho frequentate a lungo ma non sono mai andato oltre i limiti».
La cosa che le è venuta meglio qual è?
«Un gol fatto a 14 anni. Giocavo in una squadra del mio paese e ne feci uno di esterno destro, a giro, che si infilò all’incrocio dei pali. Un momento quasi poetico. E poi anche qualche canzone che ho fatto».
È vero che ha cambiato squadra: da Inter è passato a tifare Roma?
«Sì, cosa che la dice lunga sulla mia fedeltà, anche nei rapporti con le donne. In fondo, sono un attore: un ipocrita».
Gli incontri della vita?
«Cito uno degli ultimi: Paolo Conte. Fece le sigle di Maledetti amici miei del 2019, un programma di Rai2 fatto con Veronesi, Haber e Rubini. Andammo nello studio con lui, poi cenammo insieme. Lui è un idolo, forse il più importante della mia vita. È stato bellissimo».
È vero che vorrebbe fare il testimonial dell’Amaro lucano?
«Sì. Sono lucano fino al midollo e non mi hanno mai considerato. Comunque, e non scherzo, le due grandi delusioni della mia carriera sono questa e la foto sul cruciverba della copertina della Settimana Enigmistica. Mia madre l’ha comprata per tutta la vita e mi sarebbe piaciuto darle questa soddisfazione».
Nel 2012 ha detto di no a Woody Allen per il suo "To Rome with love": si è pentito?
«Io l’avrei fatto, ovviamente. Solo che non riuscivano a darmi i giorni per le riprese e io avevo prenotato un viaggio con mio figlio, un amico e suo figlio, alle Hawaii».
Nel film il suo personaggio viene definito "un mobile storto": si sente così?
«Un po’ mi sono raddrizzato. Ero molto incurvato a 50 anni, poi facendo i miei film ho iniziato a non sentirmi più un parvenu. Un impostore. Oggi mi sento meno un imbucato».