Domenicale, 30 aprile 2023
Sul nuovo disco di Vinicio Capossela
Le parole sono importanti diceva in un vecchio film Nanni Moretti (Palombella rossa, 1989). Lo sono, dovrebbero esserlo, soprattutto per i cantautori, e prova a certificarlo Vinicio Capossela, che nel suo nuovo lavoro, e nelle Tredici canzoni urgenti del titolo, spreme un vocabolario che al cospetto di tutti i colleghi appare inusuale, deviante, e fanno pensare al personaggio di Up il sovversivo, fumetto d’epoca di Alfredo Chiappori. Prima ancora di valutarne il messaggio veicolato, già all’abbrivio, nella ballata Il bene rifugio, ci si imbatte in versi ove la voce dell’artista narra di «fronte macrocefala... cervello rettiliano... sistema limbico»: un trampolino tutto speciale proiettato per discettare sull’oggi. Lessico & favole.
L’urgenza che Capossela, classe 1965, manifesta e ha ribadito in fase di presentazione del disco, sta nel fornire una propria istantanea del mondo e della società, distillando un pensiero critico che rifugga lo slogan politico, ma non l’invettiva e l’indignazione: un doppio sogno perseguito anche con citazioni e riferimenti a Brecht o all’Ariosto, su cui appoggiarsi con l’ausilio di un parco sonoro ricchissimo, lussureggiante, di linguaggi vibranti anche se tra loro lontanissimi. Per essere ben convinto della riuscita, Capossela ha chiamato a sé produttori diversi, decine di musicisti e cantanti, ospiti da imbarcare su un vagone lanciato contro l’ingiustizia: voci della frontiera indie di ieri e di oggi, jazzisti-rumoristi a convivio con arpe, viola da gamba, fiati assortiti. Un profumo denso di ricerca e di rincorsa che evidenzia il bisogno di partecipazione, di presenza sul campo: non è casuale neppure la data di pubblicazione del disco, ad abbracciare due scadenze peculiari come il 25 aprile e il 1° maggio, cui offrire la propria testimonianza in musica anche dal palco, anteprima del tour che è iniziato a Torino (25 aprile) per proseguire a Taranto (1° maggio).
Tredici canzoni urgenti non è un disco strettamente ideologico, ma certo Capossela prende posizione attraverso la ragione e il sentimento, laddove enuncia un’idea di sopraffazione e abuso tra i sessi (La cattiva educazione, con Margherita Vicario), le carceri come buco nero della coscienza comune (Minorità), le contraddizioni di chi, inerte, osserva «con sguardo bovino» le paure e le guerre (Sul divano occidentale, con tre storiche conoscenze della nostra musica, Raiz, Bunna, Sir Oliver Skardy), la bulimia su cui si fonda il sistema economico (All you can eat, con Marc Ribot alla chitarra). C’è rabbia e sgomento nella postura di queste composizioni – nate tutte nell’arco di pochi mesi, all’inizio 2022 -, che Vinicio cavalca senza sbraitare o grugnire nel microfono, attento piuttosto a scandire le liriche e rendere quel tessuto di immagini ben permeabile, tangibile. Sì, perché nell’album troviamo tantissimo testo, che Vinicio comprime nei diversi brani per poi liberarli come scie chimiche distanti anni luce dalla concezione classica della musica italiana.
Dove altro scovare la delicatezza e l’arguzia che animano pagine quali Staffette in biciclette, in cui scorrono i nomi di tante partigiane emiliane (“Dispacci nascosti nei bigodini”), Ariosto governatore, ambientata “tra monti e lupi”, o Gloria all’archibugio, marcia che rievoca l’Orlando furioso? Tutti temi, tentazioni, accelerazioni che potevano mandare il motore di Vinicio fuori giri, o annegarlo nella retorica, e invece si snodano grazie a viluppi sonori arditi e a un’interpretazione sempre abbracciata, con affettuosa ironia, a quella sinfonia di parole. In passato, nei trentadue anni di carriera, Capossela ha abituato a panorami stranianti, tra bestiari, creature marine, esseri fantastici, mentre qui decide di occuparsi molto più dei suoi simili, evitando di adagiarsi su un prato ben pettinato e confortevole. Il rischio di un autocompiacimento multitasking con cui ubriacarsi sembra così sventato dalla capacità di alternare il dato elegiaco, con lo scossone emotivo o il piacere di Cha cha chaf della pozzanghera, brano nonsense, ma fino a un certo punto, fino a una chiusura, Con i tasti che ci abbiamo, dove si segnala che, all’occorrenza “Solo quelli suoneremo/una melodia sdentata”.
Tra le moltitudini di una carriera sempre adulta e coerente, Capossela ha saputo disinnescare la tendenza ai luoghi comuni, al punto che nel multicolore pastiche della sua urgenza odierna trapela anche un colto aggancio ispirato all’universo musicale dell’autore ungherese Mihály Víg, apprezzato in molte colonne sonore di un regista di culto, Béla Tarr. Il tutto a sovrastare una varietà inquieta fors’anche eccessiva, che però denota la legittimità di esporsi e raccontare, in una forma di resistenza all’omologazione alle placide rime delle canzonette: a cui qui, fortunatamente, Vinicio non concede asilo.