Domenicale, 30 aprile 2023
Cicerone volgarizzato e lezioni di metodo
Gli ultimi mesi, gli ultimi anni sono stati pieni di cose interessanti nel campo della filologia italiana, con, a tacer d’altro, non una ma due edizioni critiche della Commedia di Dante diversamente esemplari (Inglese e Tonello-Trovato), un nuovo eccellente manuale per l’università (Bausi), e collane che continuano a dare ottimi frutti. Nell’elenco merita un posto di rilievo la nuova edizione critica a cura di Cristiano Lorenzi del più antico volgarizzamento della Prima Catilinaria di Cicerone. Si tratta di un testo del primo secolo della nostra letteratura, un testo che può essere caduto sotto gli occhi di Dante e dei suoi contemporanei; e che chiama in causa il maestro di Dante, quel notaio Brunetto Latini che – come si legge in un celebre passo di Inferno XV – ha insegnato a Dante «come l’uom s’etterna», cioè come si può sopravvivere alla morte, restando vivi nella memoria degli uomini, grazie alle opere del proprio ingegno.
Lo chiama in causa perché in passato si è creduto da parte di alcuni che il volgarizzatore fosse proprio Brunetto, del resto non nuovo a questo tipo d’impresa: sue sono infatti le traduzioni di altre tre orazioni ciceroniane, nonché – nel corpo della sua Rettorica – di un’ampia sezione del De inventione. L’attribuzione in realtà ha scarso fondamento, ma l’importanza del testo non ne è diminuita soprattutto per due ragioni. Da un lato, si tratta di uno di quei non pochi testi concepiti tra il secondo Duecento e il primo Trecento in vista dell’educazione dei laici non “letterati”, un corpus cospicuo, cruciale per la storia della cultura italiana, e sul quale in questi ultimi decenni si sono felicemente moltiplicate le iniziative di studio (ovvero: ne sappiamo oggi molto di più di quanto non ne sapessimo mezzo secolo fa, il che non si può dire di tanti altri temi di ricerca). Dall’altro lato, l’esame della tradizione manoscritta rivela l’importanza che questo genere di scritti ha avuto, cent’anni dopo, nell’età dell’Umanesimo. La Catilinaria volgarizzata entrò infatti, spiega Lorenzi, in una «assai nota miscellanea retorico-civile di ispirazione repubblicana approntata a Firenze nel corso del Quattrocento: codici di dicerie e pìstole che raccolgono materiali volgari (per lo più lettere o orazioni, sia di epoca classica che medievale-rinascimentale), utili alla formazione, soprattutto retorico-oratoria, del cittadino» (è il tipo di sillogi studiato in un bel libro di Camilla Russo, Firenze nuova Roma, Franco Cesati Editore). Non è il genere di testi che il cultore di belle lettere ami frequentare; ma lo storico ha modo di apprezzare un documento davvero rappresentativo di ciò che fu la cultura dei laici nell’Italia tardo-medievale.
Del volgarizzamento esistono due versioni, e le prime pagine dell’introduzione fanno luce sulle rispettive caratteristiche e sul rapporto che va immaginato tra le due (una versione A più lunga che è la matrice, il modello sul quale la versione B, più breve, è esemplata). Segue un capitolo sulla tecnica di traduzione del volgarizzatore, una discussione circa la sua identificazione con Brunetto (identificazione, ho detto, non esclusa ma dimostrata improbabile) e un tentativo di individuare l’esemplare latino che il volgarizzatore ha avuto sott’occhio. Quindi l’elenco dei testimoni, la loro classificazione genealogica, e infine il testo dell’orazione nelle sue due redazioni, minutamente commentate. Nulla di diverso da ciò che si fa comunemente nelle edizioni critiche, ma qui sta il punto, nonché il motivo della segnalazione di un libro che avrà, necessariamente, pochi lettori.
La filologia è una disciplina austera e difficile, e non ultima ragione della sua difficoltà è che spiegare i suoi procedimenti richiede doti non comuni: di scrittura (bisogna esporre cose complicate in maniera comprensibile) e prima ancora di organizzazione mentale (bisogna capire bene come sono andate le cose, o formulare sensate proposte in merito, bisogna avere quella virtù rara che è la sicurezza, la sicurezza che deriva dalla perfetta padronanza dell’argomento). Ora, a me capita abbastanza spesso di leggere edizioni critiche, e non di rado non capisco bene ciò che l’editore mi sta spiegando, un po’ perché i passaggi logici non sono ben argomentati, e, diciamo, l’ostensione prende il posto della dimostrazione, e un po’ perché i filologi si compiacciono talvolta di un gergo allusivo, cifrato, che sembra farsi un punto d’onore d’illustrare lo stato delle questioni con il minor numero di parole possibile, e con il minor numero di verbi di modo finito possibile; e alludendo, ammiccando, dando per scontato ciò che scontato non è. Invece nelle discussioni filologiche di Cristiano Lorenzi – prima di questo libro le tre orazioni cesariane e la magnifica edizione delle poesie di Fazio degli Uberti, anche queste caratterizzate da una tradizione manoscritta folta e intricata, e prima ancora (ed era, credo, la sua tesi di laurea) l’Aventuroso ciciliano attribuito a Bosone da Gubbio, cioè un altro capitolo importante nella storia della prosa italiana delle origini – io capisco sempre tutto: non saprei fare così bene, ma capisco, seguo il ragionamento, ed è già una soddisfazione. Dice Contini da qualche parte che niente, nel lavoro intellettuale, è piacevole come ammirare e stimare. Non sono sicuro che valga per tutti, e non sono sicuro che nell’ammirazione non possa entrare anche un po’ d’invidia, tanto più che in questo caso non si tratta di un vecchio maestro ma di un giovane studioso; ma insomma, in tempi in cui metodi più à la page presumono di soppiantare gli studi storico-filologici, volevo cogliere l’occasione per ribadire che si tratta di una presunzione infondata, se i prodotti sono di questo livello.