Domenicale, 30 aprile 2023
I «coccodrilli» di Giorgio Manganelli
Il libro, superbamente intitolato Il vecchio gioco di esistere, non era stato predisposto da Manganelli prima della sua morte avvenuta nel 1990. Le sue carte dormivano, disperse, entro l’ammasso di articoli pubblicati, tra il 1969 e il 1989, su «L’Espresso», il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero»; oltre che in qualche miscellanea o in fogli volanti. La figlia dello scrittore, Lietta, le ha sfilate; e le ha assemblate, secondo un ordine che non è solo cronologico. Ha così dato vita a un prezioso e sorprendente manualetto di necrologi, nei quali il lutto viene redento dallo stile e da una sontuosa frenesia linguistica: mentre il dolore della scomparsa, e «l’effimero orrore della morte», cedono il passo alla «letizia» ragionante di una lapidaria rivisitazione di vite che, pienamente vissute, hanno avuto un memorabile «significato» di affetti e una vastità di risultati nella storia e nelle arti. I necrologi si aprono al ritratto che, quando si tratta di scrittori o di pittori, mette in correlazione i «connotati» di ogni singola «biografia mentale» con i «connotati» delle scritture e delle scelte figurative.
Aprono la raccolta i necrologi di Giuliana Benzoni e di Augusto Frassineti, entrambi conosciuti da Manganelli nell’agosto del 1960. Manganelli era spesso ospite della Benzoni a Capo di Sorrento, nella storica villa «La Rufola» che, durante il fascismo, era stata il luogo d’incontro dei più importanti protagonisti dell’antifascismo. Fu la Benzoni a consegnare a Manganelli una lettera di presentazione per Frassineti che, nel 1952, aveva pubblicato il romanzo umoristico Misteri dei Ministeri destinato a varie ristampe e a un lunghissimo successo. Il titolo del romanzo diventò proverbiale. Manganelli fu subito colpito dal «pretestuoso vocione romagnolo» di Frassineti. E dalle doti diplomatiche della Benzoni, oltre che dal suo signorile «sorriso». Autoironico era il modo di presentarsi della Benzoni. Lo confermano le sue memorie: «Sono nata blasonata e non me ne vanto… di tutto il passato della mia famiglia, di nobiltà milanese, imparentata con i Visconti, scelgo un personaggio in un certo senso fuori scena, ai margini della vicenda, oltre le righe scritte del capolavoro di Manzoni. La madre dell’Innominato, il celebre convertito del romanzo più famoso dell’Ottocento, era Paola Benzoni».
Salvatore Silvano Nigro
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Dunque Borges è morto; il vecchio gioco di esistere cessando di esistere ha tentato il grande vecchio scrittore. Il gioco millenario dell’occultamento della metamorfosi in puro nome; la tentazione di dare un volto al nulla. L’insidia del definitivo nascondiglio della morte, ascoltarsi ma non quietarsi, gridare messaggi, ma rifiutarsi di riceverli; ascoltare senza rispondere, trasformarsi in una furba, forse ironica imitazione di Dio.
Non riesco a pensare alla morte di Borges come a un evento ovvio, naturale, qualcosa che accomuna il tiranno e la sua vittima, il poeta e il lettore. La morte mi sembra una figura retorica tra le molte cui Borges fece ricorso, una battuta felice, una di quelle astute elusioni, quei rovesciamenti di tema e tono che danno un brivido ai suoi lettori. Borges è qui, dov’è Borges? Borges non c’è più. Ma no, non è Borges, questo? Ecco: che cos’è, questo Borges? Il Borges che ora resta con noi, per sempre e con coloro che verranno dopo di noi? Dal momento in cui Borges, diventando eterno cessa di essere quotidiano, che cosa è mai? Non lo sappiamo, non solo perché è naturale e inevitabile che non si sappia nulla di un’opera che è or ora giunta alla sua conclusione editoriale, ma per una ragione più specifica, una ragione borgesiana per cui non possiamo sapere chi era Borges.
Il fascino di questo scrittore è stato per molti suoi lettori legato a un’impresa cui molti, alti e umili, diedero mano potrei dire all’incirca a questo modo: l’opera di Borges fu tesa alla demolizione della figura retorica che diciamo realtà; fu, questo scrittore, una piaga sul volto della storia, una cicatrice tenuta deliberatamente aperta sul corpo mentitamente liscio della socialità quotidiana; suo compito fu questo appunto: dove signoreggiava la vanitosa e crudele ambizione delle certezze, riportare la quiete, l’ombra e insieme l’angoscia dell’enigma; un’angoscia che va tollerata e amata sebbene sia connaturale alla struttura dell’enigma che non si dia né risposta né soluzione.
Borges operò per restituire alla letteratura il suo spazio specifico, fatale, che è per l’appunto il silenzio che circonda l’enigma, l’incantesimo che agisce in guise occulte tanto che il cosiddetto scrittore non ne sa, non ne saprà mai nulla. Non v’è dubbio che Borges fu un pronunziatore di carmina, di evocazioni e incantamenti; per un momento ho pensato di scrivere “invocazioni”, poi ho cancellato la parola che ora riscrivo per negarla.
Borges non poteva “invocare”, perché questo gesto presuppone un destinatario, una meta nota, e dunque in qualche modo un rifiuto dell’enigma: una intolleranza del silenzio della letteratura. Non sto ora alludendo alla teologia atea di Borges, giacché le persuasioni concettuali di uno scrittore sono del tutto irrilevanti a ciò che egli in effetti scrive; il culto del silenzio, il rifiuto dell’“invocazione” discendono semplicemente dal modo in cui Borges professava la letteratura dell’enigma, e soprattutto dal modo con cui la tollerava giacché la letteratura può essere una condizione intollerabile.
Borges riuscì a invaghirsi del silenzio, coltivò una tenerezza ironica per il deserto e tesaurizzò l’assenza di risposte con un sistema arguto, malizioso, sottile di – ecco, non so quale parola aggiungere; forse Borges, il cieco, si compiacque della frequentazione delle ombre; scoperse e apprezzò la compagnia delle lacune; e seppe, musicologo ateo, distinguere varie qualità di silenzio; seppe, in modo straordinariamente o accurato e perfino accademico, perseguire quell’assenza, quel vuoto, quella lieta desolazione che appartiene naturalmente alla letteratura.
Ci fu molta ironia nell’opera di Borges, ma non fu ironia scettica e perfezionista, fu quella particolare ironia che è propria della letteratura, l’arte di sopravvivere dentro l’ingegnosa struttura delle parole, la folla delle proposizioni; sopravvivere in quella maniera trionfante e marginale che Borges sperimentò in guise estreme. Venerato in modi anche incauti, cui egli consentiva con una recitazione che pareva gioco e burla, Borges rappresentò una sorta di scrittore per il quale in realtà non c’è indulgenza: lo scrittore che sa che egli non ha nulla da dire nel duplice senso; non dice nulla e dice il nulla. Il “nulla da dire” è il destino della letteratura, ed è un destino periglioso e arduo, giacché è quasi impossibile non dire qualche cosa, magari per pura distrazione.
Segno dell’intensità di Borges fu forse proprio l’uso dell’ironia per vietarsi l’accesso alla profondità; Borges sapeva che il suo destino, il destino dello scrittore, è percorrere superfici, nient’altro; perché al di sotto non c’è nulla, l’imperscrutabile nulla.
Giorgio Manganelli