il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2023
Biografia di Pino Scotto raccontata da lui stesso
Avvertenza: non imitatelo a casa. La vera vita spericolata del rock non fa sconti, se non hai la pellaccia dura. E Pino Scotto, l’officiante sconsacrato del metal italiano, ce l’ha. È uno di quelli che ha segnato la scena della musica italiana, sparando piombo fuso dal palco alla testa dei Vanadium, senza mai risparmiarsi. Perché, e questo i ragazzini viziati della trap contemporanea non lo sanno o non vogliono saperlo, la vecchia scuola del r’n’r nasce, resiste ed eventualmente muore in scena. Facendoti sanguinare le dita sugli strumenti, spaccandoti la gola in un grido liberatorio, sudando sette giubbotti. È una fede profana, l’hard rock. Sesso e droghe fanno da contorno, ma il primo comandamento è dare tutto quel che hai, senza risparmiarti, e quando ti senti vuoto e scarico dovrai tentare di ricaricarti con ogni benzina disponibile. Se arrivi in vista della senilità, puoi sperare di diventare persino saggio. Come Pino.
Come sta?
Bene. Certo durante il lockdown ho visto i mostri, ma i mostri quelli veri: in vita mia non sono mai stato in casa, così all’improvviso la calma e il silenzio mi hanno assalito e non ho capito più nulla; (sorride) già da ragazzo fuggivo dai miei per andare ai concerti, ovunque.
Dove?
Nel 1968 ero a Roma, al Brancaccio, per vedere Hendrix.
Pezzo di storia.
Eppure in quel momento pochi di noi si sono resi pienamente conto di cosa stavamo vivendo, e avevamo davanti la rivoluzione; io venivo da un paesino in provincia di Napoli, Monte di Procida, ovviamente non avevo una lira, quindi raggiunsi Roma in autostop e poi una colletta per acquistare il biglietto. Del cibo non me ne fregava nulla; stessa cosa al Vigorelli di Milano.
Quando scoppiò il caos con assalti, risse e lacrimogeni. Gli “autoriduttori” dei biglietti.
Ero lì per i Led Zeppelin e non si riusciva neanche a scappare; ricordo due ragazze cadute in terra, la “mandria” che le calpestava e altri che assaltavano il palco per rubare i cimeli della giornata.
Proprio altri tempi.
A Santana lanciarono una molotov; però che begli anni.
In carriera quanti concerti ha fatto?
Circa tremila; oh, sono 52 anni che sto su un palco ed è appena uscito il mio ventiduesimo album, Live ‘N Bad, rigorosamente dal vivo.
Un numero enorme.
Però nella mia carriera avrei dovuto stare più zitto e invece mi sono sempre esposto, sempre schierato.
Sempre e ovunque.
Soprattutto in fabbrica: per 35 anni sono stato un operaio e ho rotto i coglioni tra manifestazioni, proteste interne e picchetti per fermare i crumiri.
Qual è stato il punto di snodo tra diventare un artista mainstream e restare di nicchia?
Negli anni 80, con i Vanadium, siamo arrivati a vendere 50 mila copie, migliaia di persone ai concerti, con la casa discografica che ci spediva nei programmi Mediaset come il Festivalbar…
E lì?
Ho scoperto cos’è l’accattonaggio umano, la pezzenteria mentale: della musica non fregava nulla a nessuno, era più importante leccare i culi giusti. Io non ero in grado.
C’è un “però”?
Alla fine nel mio curriculum posso vantarmi di aver suonato più volte sullo stesso palco dei Deep Purple, degli Ac/Dc e degli ZZ Top; e poi con uno come Lemmy (Kilmister, celeberrimo cantante e bassista, leader della band britannica dei Motörhead) sono diventato fratello di whisky; (pausa) da quando Lemmy è morto ho smesso con tutto, basta alcolici, basta altra roba, neanche una sigaretta.
Che “roba”?
(È infervorato e tira dritto) La maggior parte delle persone mi inquadra come un cagacazzi perché attacco frontalmente certe situazioni. Io non parlo male, chi lo fa è sempre alle spalle. Io sparo i miei giudizi in faccia, ed è diverso.
Pure Nek l’ha denunciata per giudizi reputati pesanti.
Mica solo lui, ma chissene frega.
Ha rischiato una denuncia quando pensava di tirarsi giù i pantaloni a Sanremo.
Ho sbagliato a dirlo prima, quindi mi è stato impedito; mannaggia al mio discografico.
Le caratteristiche essenziali per risultare un vero rocker.
Devi essere una persona corretta, uno che prova passioni e soprattutto un sognatore.
Il suo sogno è cambiato?
È sempre lo stesso e mi basta salire su un palco per entrarci dentro.
Oltre alla musica?
Cosa amo? Le donne; (pausa) ma per favore andiamo oltre la questione.
Pino Scotto da bambino.
Quando avevo sette anni mio padre lavorava alla base Nato di Napoli come civile. Vivevamo in un appartamentino con il lavatoio all’ultimo piano. Una mattina mamma sale, apre la porta e mi trova appartato con una bambina. Quante mazzate, ma ero stato assalito dalla passione.
Quindi ha iniziato a suonare per le donne.
Come quasi tutti i musicisti e per questo molti colleghi si sono fregati.
Pino Scotto no.
A 11 anni fregavo i soldi a mio padre per acquistare gli album di Elvis: quando se ne è accorto mi ha riempito di botte e io in fuga da nonna. Dopo tre giorni sono tornato, convinto si fosse calmato.
E invece.
Ha ricominciato; (pausa) però a 74 anni ancora credo a Babbo Natale; (altra pausa) posso raccontare la prima volta che ho conosciuto Lemmy?
Ci mancherebbe.
Con i Vanadium tornavo da Londra e dopo aver inciso nello stesso studio di Battisti; ci chiamano per suonare nel tour dei Motorhead: alla prima data, a Bologna, mi presento nel camerino di Lemmy con due bottiglie di whisky e il companatico.
Traduciamo companatico.
Lo sapete.
No.
Vabbè, quella roba lì, ma oltre a quella non sono mai andato; comunque entro, iniziamo a parlare e scopro un grande esperto di blues. Lui, re dell’heavy metal, in realtà era un appassionato del genere.
E giù a bere.
Whisky a pioggia; per quarant’anni ne ho bevute due bottiglie quasi tutte le sere, magari tornavo alle sei del mattino a casa, una doccia e alle otto ero in fabbrica. A volte mi sento un miracolato e non capisco come ci sono riuscito.
Ci vuole fortuna?
No, di più: un culo gigantesco; (sorride) la sera ero un rocker, uscivo con altri musicisti, magari Francesco Renga e Omar Pedrini quando suonava con i Timoria. Poi loro sfatti andavano a dormire, mentre a me toccava rimettere i panni del lavoratore.
Doppia vita.
Dovevo portare la pagnotta a casa; in realtà mi ha salvato la passione per la musica.
Enorme.
Da quindici anni ho un programma alla radio e pur di esserci ci vado gratis.
Perché?
Anche per trasmettere qualcosa ai ragazzi, un po’ come è successo a me con Bob Dylan, solo che i ragazzi spesso sono sconfortanti: l’altro giorno uno mi ha chiesto perché Robert Plant urlava così tanto con i Led Zeppelin.
Risposta?
Lo avrei preso a calci nel culo.
Lei sul palco prima degli Ac/Dc…
Un giorno mi chiama Francesco (Sarcina delle Vibrazioni, ndr): “Ci hanno invitato ad aprire il concerto degli Ac/Dc: suoni un brano con noi?”. Resto basito: le Vibrazioni prima di quei mostri, è pericoloso. Comunque, ovvio, accetto.
E…
Appena arrivo sul luogo del concerto capisco che i miei timori sono fondati: chi mi riconosceva sparava a zero sulle Vibrazioni, “ma che stai a fa’ con quelli?”. Io sempre più preoccupato. Inizia il loro show e vedo le persone che si tirano giù le mutande e gli mostrano il culo, poi parte una contestazione assurda. E il lancio di oggetti, compreso un bullone che prende nel petto il batterista.
E lei?
Sono uscito sul palco e mi hanno applaudito. Ho salvato il culo alle Vibrazioni: nel mondo del rock ho la mia credibilità.
Anche in questo caso lei è un sopravvissuto.
Voi scherzate ma è vero: dagli anni Settanta ho visto molta gente morire di eroina, compresi due membri della mia prima band; poi fino a sei anni fa non mi sono risparmiato.
Le manca la vecchia vita?
No. E quando ne parlo ho la sensazione di riferirmi a un’altra persona.
Rivede i filmati o le foto degli anni 80?
Ogni tanto, ma senza particolare emozione, mi sento indifferente rispetto al passato: non ho neanche uno degli album dei Vanadium.
Il suo primo palco.
Credo quello dentro la base Nato, io ancora minorenne, con il barista che mi allungava la Coca Cola con il whisky; a quell’epoca scappavo dal mio paese per raggiungere Napoli e vedere i concerti, ascoltare musica, ho pure formato una band, solo che come al solito non avevo una lira, allora dormivo ovunque, pure per strada. In quegli anni ho conosciuto un’umanità meravigliosa, cinematografica.
Tipo?
C’era un parcheggiatore abusivo che la notte mi dava le chiavi delle macchine: entravo e mi piazzavo sul sedile posteriore. Un giorno, poco prima dell’alba, sento aprire la portiera: “E tu che fai qua?”. “Scusate, non sapevo dove stare”. “Ah, tranquillo, ma non sono il proprietario”. Era un ladro. Vista la situazione ha cambiato la prospettiva del risveglio: “È presto, vieni che ti offro la colazione”. Così siamo andati in un bar, ho mangiato e lui è tornato ai suoi doveri…
Prima di salire su un palco, come sta?
È sempre la stessa, solita, incredibile magia. In certe serate sono arrivato al concerto conciato di merda, a pezzi, ma davanti al microfono sparisce tutto; (pausa) nel 1992 ho suonato al Monsters of Rock di Reggio Emilia (oltre 40 mila paganti). Arrivo. Vado in camerino. Trovo Phil Anselmo, il cantante dei Pantera, svenuto, totalmente lesso: lo hanno portato sul palco a braccio, non ci volevo credere, era ubriaco. E li sopra si è trasformato, ha regalato una concerto pazzesco; quel concerto era pieno di donne.
Non è chiaro: per lei sono più importanti le donne o il palco?
Non c’è l’uno senza l’altro.
Da qualche tempo molti artisti, molte band utilizzano gli aiutini dell’elettronica per non prendere stecche…
Assurdo. Però ci sono cantanti come David Coverdale (ex frontman dei Deep Purple, ndr), che steccano in continuazione a causa delle corde vocali stirate. A lui servirebbe un aiutino. Resta che rischiamo la schiavitù della tecnologia e così si perde l’essenza del rock.
È così diffusa la tecnologia?
Temo proprio di sì. A Milano me ne sono accorto con Paul Stanley (dei Kiss, ndr) ed era imbarazzante; alcuni musicisti ormai fingono, durante il concerto.
Cosa si rimprovera nella sua carriera?
I soldi che ho speso e avrei potuto utilizzarli per altro.
Come li ha spesi?
Secondo voi?
Ce lo dica.
Con quella roba lì (intende la droga, ndr).
Chi è lei?
Uno che vive in pace con la propria coscienza e che crede nel sogno del rock.