il Giornale, 29 aprile 2023
Paul Valéry, poeta maledetto
Ogni scrittore si rivela nel momento della crisi; ogni scrittura ha il proprio blasone nell’istante in cui si vanifica. Così, Hölderlin diviene poeta nel 1805, l’anno in cui è dichiarato folle, e Rimbaud si rivela a se stesso nel 1873, quando sceglie di dimenticare in una tipografia di Bruxelles 500 copie di Una stagione all’inferno fresche di stampa. La grande letteratura si fa lì, nell’attimo in cui la finzione narrativa è la sola verità, in cui l’uomo sovrasta l’artista e il silenzio, la minaccia dell’angelo, vince. Ogni grande scrittore ha la sua Arzamas, la stazione di posta in cui nel 1869 Lev Tolstoj si sveglia alle 2 di notte e scopre «una tale angoscia, paura, orrore, come non avevo mai provati...». L’insensatezza del tutto, la certezza che ciò che si scrive è futile, che l’arte è refolo di nulla. Paul Valéry la propria crisi l’ha vissuta a Genova, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1892. Da allora, il poeta abdica alla poesia, dandosi alla scrittura nascosta, depositata nella mole affascinante e criptica dei Cahiers, «migliaia e migliaia di pagine che comincia ad accumulare giorno dopo giorno, instancabile, dalle cinque alle otto della mattina» (Franco Rella). Secondo alcuni, i quaderni di Valéry – editi in parte da Adelphi – sono l’autentico capolavoro del poeta. Dalla crisi, Valéry emerge con un anti-romanzo, il ciclo dedicato a Monsieur Teste – «una Chimera della mitologia intellettuale» – e un poemetto di claustrale perfezione, Il cimitero marino. In qualche modo, Valéry porta la letteratura verso un punto di non ritorno, oltre il quale c’è il silenzio, il ripudio. Il primo verso dell’ultima stanza del Cimitero marino – «Le vent se léve!... Il faut tenter de vivre!» – va sussurrato con l’intensità dell’epigrafe rimbaudiana, «Elle est retrouvée./ Quoi? L’Éternité». Partendo da una considerazione di Yves Bonnefoy secondo cui Valéry «nel nostro tempo è il vero poeta maledetto... condannato alle idee, alle parole», Franco Rella ha tradotto e commentato Monsieur Teste e Il cimitero marino in un libro dalla bellezza, viene da dire, fieramente pericolosa, Il poeta maledetto (De Piante, pagg. 170, euro 20). Il filosofo, mostra infatti «il lato oscuro che la poesia non può né rimuovere né sublimare», portandoci al cospetto delle domande impossibili, sulla vita e sulla morte. Nei suoi ultimi appunti, Valéry scriveva di un cuore – «my heart» – che «trionfa più forte di tutto»; chissà se è il bene, questo – o l’abisso. Paul Valéry, poeta icastico, cattedratico, «di Stato», viene qui considerato come un «poeta maledetto». Perché? «Valéry è un paradosso. È uno dei massimi poeti del Novecento che però si è mosso a partire da un ripudio della poesia. In una mitica (o mitizzata) notte del 1892 Valéry decide che tutto quello che poteva essere espresso in poesia era già stato espresso e di fatto fino al 1917, quando pubblica La giovane Parca, non scrive più poesia. Yves Bonnefoy in un breve polemico saggio parla di Valéry come di un poeta maledetto. Io ho cercato di dare peso e senso a questa affermazione mettendo in luce come Valéry abbia dapprima combattuto contro la poesia, vale a dire contro la sua stessa vocazione poetica, e poi abbia cercato di limitarla ad un gioco tecnico, ad un esercizio accademico. Poète maudit, non per i contenuti ma per la sua ostilità verso la poesia». Che legame istituire tra Monsieur Teste e il poeta del Cimitero marino? «Monsieur Teste, un testo straordinario e che ha lasciato tracce su tutta la produzione di Valéry, è la creazione di un personaggio che è una sorta di guardiano che vigila contro ciò che definisce la poesia come un’ulteriorità rispetto alla logica, richiamando ad un feroce razionalismo, così radicale da diventare un irrazionale. È Teste che dice: transiit classificando. Teste, il testimone, non cerca il senso del mondo, ma lo classifica. Il cimitero marino, uno degli esiti più alti della poesia del XX secolo, ne è l’antitesi. Sono le due facce del paradosso Valéry che si attraggono con la stessa forza con cui si respingono. D’altronde Kierkegaard ha affermato che proprio il paradosso è pensiero». Il cimitero marino è poemetto sigillato, cifrato, pare, pura effervescenza di luci. Che senso ha? E poi, quali strategie ha adoperato per tradurlo? «Valéry ha detto che non ha alcun senso. Dunque, è una sfida. Il poema ha avuto molte traduzioni e quindi ha tentato molti. Io sono stato tentato proprio dal suo presentarsi come testo sigillato ed ermetico, ma pieno di immagini di luci di suoni. Dopo averlo letto e riletto ho deciso di accettarne la sfida. Parlando del Cimitero marino Valéry parla di sillabe, di rime, di versificazione. Il poema è composto da ventiquattro strofe, di sei versi ciascuna, vincolate dall’uso delle rime: AA-B-CC-B. Ho deciso di usare la stessa struttura, con le rime articolate nello stesso modo. Questo ha reso necessario un lavoro sulla lingua italiana, e forzare la forma di alcune parole. Questa lingua, che rispettava ogni aspetto del testo, ogni immagine e ogni sensazione, era la mia lingua del Cimitero marino. È stata un’esperienza formidabile». In un libro precedente lei ha legato l’opera di Valéry al concetto di «cantare la morte». «Valéry è il poeta della morte, come lo è Rilke. Entrambi non hanno parlato di altro. Il grande ciclo di Narciso, altra figura rilkiana, che lo accompagna fino alla fine della vita quasi come, scrive, una autobiografia, è la poesia dell’io che si scopre nella morte». La poesia è sempre in lotta con il suo specchio, il silenzio, il deserto, la diserzione dalla parola. La nudità in vece dell’ornamento. Questa dinamica è valida anche in Valéry? «Anche in questo Valéry è un paradosso. Il silenzio, il deserto, la diserzione sono la poesia stessa privata del suo senso che dobbiamo cercare malgrado Valéry, contro le sue raccomandazioni. È come se Valéry tenesse insieme la poesia e il suo contrario».