La Lettura, 29 aprile 2023
Sulla “Coscienza di Zeno”
Il primo maggio del 1923 l’editore Cappelli di Bologna pubblica La coscienza di Zeno in millecinquecento copie a spese dell’autore e, come previsto, il romanzo viene totalmente ignorato. È il terzo fiasco (su tre) di Italo Svevo, un facoltoso uomo d’affari di sessantadue anni noto a Trieste col suo nome vero, Aron Hector Schmitz, un ex bancario diventato capitano d’industria, amante della musica, recensore saltuario di teatro, nonché, certo, aspirante scrittore, anche se quasi nessuno lo sa ancora. In quegli anni le testimonianze raccontano di uno Svevo rassegnato all’anonimato e all’insuccesso, poi per fortuna Bobi Bazlen farà conoscere La coscienza a Eugenio Montale, il quale scriverà sulla rivista «L’esame» Omaggio a Italo Svevo, mentre James Joyce si batterà per la causa del romanzo a Parigi, e insomma tutto questo metterà in moto un’attenzione insperata sul romanziere triestino, ma fino al 1926, vale la pena ricordarlo, Italo Svevo resta uno scrittore della domenica, un ricco buontempone per nulla inetto che vedrà riconosciuti i suoi straordinari meriti letterari a due-tre anni dalla morte.
Quando mi chiedono quali siano le ragioni per continuare a leggere La coscienza, di solito parto da qui, dal mistero che quest’opera rappresenta anche nella storia personale dell’autore, una specie di monolite piovuto nella sua vita e nella letteratura europea del Novecento in modo del tutto inaspettato. Dopo le due cocenti delusioni di Una vita e Senilità, Svevo aveva smesso di scrivere, dichiarandolo esplicitamente in una pagina del diario: «Io con questa stupida cosa che chiamiamo letteratura ho chiuso» (1902). Per circa vent’anni si era dedicato al violino pur di sottrarre il tempo libero alla scrittura. Un uomo dalla forte vocazione artistica che, per puro amor proprio, resta concentrato sugli affari senza concedersi più alle bizze della fortuna letteraria. Che carattere. Poi però scoppia la Prima guerra, l’azienda di famiglia viene chiusa e lui, negli sterminati pomeriggi trascorsi a leggere, si imbatte nell’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Sarà l’innesco di tutto: argomento, struttura, forma, fino alla conflagrazione universale che conclude il romanzo. Ma La coscienza, secondo me, non va letta solo per la sua matrice psicoanalitica, bensì per altri tre fattori: la suddivisione per temi, il trattamento del tempo e la lingua in cui è scritta (come vedremo, uno strano italiano).
A proposito della suddivisione per temi, nessuno aveva ancora pensato di poter raccontare una storia articolandola come se si trattasse di un saggio, ora vi parlerò del mio vizio del fumo, ora vi parlerò della morte di mio padre, ora del mio matrimonio, eccetera. Ancora oggi, nonostante tutte le cose lette o viste al cinema o guardate sulle piattaforme, si tratta di un’invenzione senza pari. Ma questa struttura tematica comporta come prima conseguenza un impazzimento del tempo. Raccontandosi in questo modo, Zeno intreccia le linee temporali, sovrappone i piani e accartoccia il tempo in una dimensione sincronica. Il tempo della Coscienza non è più il tempo dell’orologio, è un tempo soggettivo, interiore, quello che Henri Bergson chiamerà la durata. Sembrerebbe un limite e invece è una risorsa. Ecco il genio di Svevo, rendere espliciti i limiti, ovvero trasformarli in risorse. Farà così soprattutto con la lingua.
Nella Trieste asburgica del primo Novecento la lingua ufficiale è il tedesco, ma per strada, nella vita di tutti i giorni, la lingua è il triestino. Tutti parlano in dialetto, lo stesso James Joyce, nei dodici anni di permanenza a Trieste, lo imparerà così bene da usarlo anche più tardi, in gustosissime lettere da Parigi indirizzate al vecchio «signor Schmitz» (pur nell’amicizia, Joyce non abbandonerà mai la deferenza verso quell’uomo appartenente a un ceto così diverso dal suo). Svevo, che ha studiato in Baviera ed è di padre tedesco, elegge l’italiano come lingua culturale, non tanto per una sua presunta adesione all’irredentismo, rispetto al quale resterà sempre piuttosto freddo, quanto perché è la lingua degli autori che ama, una lingua, il toscano, che non ha quasi mai occasione di praticare e che, come dirà quasi scusandosi in una lettera al redattore della casa editrice, «resterà per sempre nella mia testa isolata».
Cosa succede se uno scrittore sceglie come propria una lingua che ha acquisito? Be’, succede che la sua lingua viene percorsa da una costante, inesorabile alterità. In una lettera a Montale, Svevo dirà: «È un’autobiografia e non è la mia». Succede anche al praghese Kafka che scrive in tedesco, all’irlandese Joyce che scrive in inglese (e a casa parlava in dialetto, una versione moderna del gaelico), ma anche al sudafricano J. M. Coetzee, scrittore di origine boera, un bianco cresciuto in una nazione di neri, che in famiglia parlava l’afrikaans come tutti gli afrikaner e che ha imparato l’inglese sui libri di scuola. Questi scrittori praticano quella che Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno chiamato letteratura minore, una letteratura che fa un uso minoritario e per certi aspetti sovversivo di una lingua maggiore. Solo loro mettono in luce l’Altro nel linguaggio. La grandezza di Svevo sta nell’averne fatto un tema che scorre carsicamente in tutto il romanzo.
Ci sono almeno quattro passi della Coscienza in cui Zeno denuncia i suoi limiti con il «toscanaccio». La sua arma è l’ironia. Nell’ultimo capitolo deride lo psicoanalista, il quale pensava che quelle fossero davvero – come crediamo anche noi lettori fino a quel punto – le confidenze più intime del suo paziente, quando invece si tratta solo delle confidenze che Zeno è riuscito a esprimere in italiano. Il Dottor S viene messo nel sacco proprio dall’astuto bugiardo di cui pensava di vendicarsi. Beninteso, Svevo – Italo, di nome e di fatto – scrive nella sua lingua ma la pratica come se fosse una lingua straniera. È suo l’italiano, gli appartiene, ma lo usa mostrandoci a ogni pagina quanto ci si possa sentire intrusi in casa propria. Grazie a lui scopriamo che, a un livello più profondo, noi siamo parlati dalla lingua che parliamo e, volenti o nolenti, finiamo per scrivere delle autobiografie altrui.