La Stampa, 29 aprile 2023
I salari italiani sono sempre troppo bassi
Le banche centrali sono preoccupate che la rincorsa fra prezzi e salari alimenti l’inflazione in Europa. In Italia possono stare tranquille: la gara non è mai cominciata.
A marzo la retribuzione oraria media è aumentata del 2,2% rispetto al 2022. Nello stesso mese l’inflazione è salita del 7,6%. Una forbice del 5,4% che taglia il potere d’acquisto. Quando il tasso d’inflazione è superiore agli incrementi delle buste paga, infatti, significa che il costo della vita sta salendo più in fretta della capacità di spesa. E in Italia il distacco sta aumentando. L’anno scorso il compenso orario medio è cresciuto del 2,3% in Italia, il dato più basso dell’Unione europea, e nell’arco del triennio 2019 e 2022 l’incremento è stato inferiore al 3%.
Stando alle analisi dell’Ocse, così, i salari reali in Italia sono calati di oltre il 2% in un anno. Il dato non è lontano da quello registrato in altri Paesi europei che, anzi, in alcuni casi hanno fatto peggio. Altrove, però, la rincorsa è iniziata. In Germania, per esempio, governo e sindacati hanno appena raggiunto un accordo per alzare gli stipendi dei dipendenti statali in media del 5,5%, accordando loro anche un bonus una tantum anti-inflazione di 3000 euro. In Francia, invece, l’adeguamento automatico del salario minimo sta trascinando al rialzo le retribuzioni.
In Italia, assenti meccanismi di indicizzazione all’inflazione, gran parte degli stipendi sono fermi al palo. «C’è un problema salariale grande come una casa», ha tuonato il segretario della Cgil, Maurizio Landini. «Abbiamo avanzato delle richieste precise» al governo. «C’è bisogno di ridurre di cinque punti il cuneo contributivo, di ripristinare il fiscal drag per far sì che gli aumenti lordi corrispondano agli aumenti netti e non siano mangiati dalle aliquote fiscale», ha aggiunto. «Poi c’è un problema di tassare la rendita e i profitti e di ridistribuirli e di fare una seria riforma fiscale».
Landini ha infine sottolineato la necessità di rinnovare al più presto gli accordi collettivi che, in mancanza del salario minimo, sono il principale strumento di aggiornamento retributivo. «Il Governo, che è il datore di lavoro, non ha messo un euro per rinnovare i contratti del settore pubblico, ha concluso. «E così non si va da nessuna parte».
I dipendenti pubblici non sono gli unici a sperare in un nuovo accordo collettivo che consenta il recupero di almeno parte del potere di acquisto perso negli ultimi tempi. La Cgil calcola che a marzo dei 188 contratti firmati dalle sigle Confederali 112 risultano attualmente scaduti, il 61%. Nel complesso, sette milioni di lavoratori italiani sono in attesa di un rinnovo, un’attesa che si protrae in media per quasi due anni ma che per un quarto dei contratti supera i quattro anni. Spesso si tratta di categorie di lavoratori poco sindacalizzate o attive in settore in crisi, dove il potere negoziale delle maestranze è inferiore. Secondo l’Istat, i lavoratori di edilizia, commercio, farmacie private, pubblici esercizi e alberghi non hanno ottenuto incrementi salariali nell’ultimo anno. Hanno invece beneficiato di incrementi significativi i vigili del fuoco (+11,7%), dipendenti dei ministeri (+9,3%) e del servizio sanitario nazionale (+6,4%).
Per ridare impulso alla contrattazione collettiva, il leader della Cisl, Luigi Sbarra, ha auspicato la sigla di un nuovo "Patto Ciampi", quello che 30 anni fa soppresse la scala mobile, cioè l’automatico adeguamento dei salari all’inflazione. «Allora bisognava frenare la rincorsa prezzi-salari, oggi, è indispensabile spezzare una spirale inflazionistica, "da offerta", legata a prezzi energetici e alla propagazione del carovita nei beni essenziali», ha sottolineato Sbarra. «Un metodo neo-concertativo aggiornato è indispensabile per raggiungere due obiettivi che possono migliorare il modello di sviluppo: un nuovo statuto della Persona nel mercato del lavoro e un’evoluzione partecipativa delle relazioni industriali».