La Stampa, 29 aprile 2023
Descalzi dice che sul gas è tutto sotto controllo
Il prezzo dell’energia in Europa non subirà «grandi scossoni» nel 2023. Ne è convinto Claudio Descalzi, fresco di conferma per il quarto mandato alla guida di Eni, i cui conti trimestrali hanno superato le attese del mercato. Fra gennaio e marzo il gruppo ha registrato 2,9 miliardi di utile netto, un risultato in calo dell’11% rispetto al 2022 ma giudicato «eccellente» dal manager tenendo conto «dell’indebolimento dello scenario» e del dimezzamento delle quotazioni del gas .
La crisi energetica in Europa può considerarsi conclusa?
«Per quest’anno non mi aspetto altri grandi scossoni sul mercato dell’energia. Gli stoccaggi europei di gas sono pieni e, benché l’economia globale sia ripartita, la domanda non è ai massimi perché la Cina non ha ancora ripreso le attività a pieno regime. Soprattutto, in questi mesi siamo riusciti a diversificare le forniture, eliminando dipendenze pericolose per la stabilità di approvvigionamenti e prezzi».
Il legame con Mosca è stato reciso del tutto?
«Le importazioni di gas russo sono quasi azzerate, ridotte a pochi punti percentuali. Merito dell’importazione di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti e dei nuovi contratti di fornitura stipulati nell’Africa settentrionale e subsahariana».
Quali Paesi hanno soppiantato le forniture russe?
L’Algeria è diventata il principale esportatore di gas in Italia, ma ci attendiamo un contributo significativo anche da Egitto, Angola e Mozambico. Una volta completati i due rigassificatori previsti in Italia, avremo forniture e infrastrutture in grado di assicurare maggiore sicurezza energetica. Restano passi da compiere a livello industriale e stiamo lavorando ad altri progetti per portare gas in Europa.
Dopo il boom dei prezzi del gas, la britannica Bp ha ridimensionato i piani di riduzione delle emissioni per privilegiare la sicurezza energetica. State valutando anche voi una revisione della strategia?
«Non faremo alcun passo indietro sulla riduzione delle emissioni a cui destiniamo circa un quarto dei 37 miliardi di investimenti previsti nel piano al 2026. Stiamo puntando molto sulle rinnovabili - eolico e solare - sulle bioraffinerie e sull’economia circolare.
Non esiste quindi un’antitesi fra transizione e sicurezza energetica?
«Non sono in contraddizione, ma anzi la prima è indispensabile per ottenere la seconda nel medio-lungo termine. Nel breve, però, la sicurezza energetica dipende dalla stabilità delle forniture di quei prodotti, petrolio e gas, che ancora soddisfano l’83% della domanda di energia. Per sostituirli è importante che anche la transizione sia diversificata e contempli più tecnologie».
Perché?
«Se la transizione non è improntata alla neutralità tecnologica, si possono formare colli di bottiglia tali da frustrare gli obiettivi di autonomia energetica. L’80% delle terre rare proviene da un solo Paese (la Cina, ndr): c’è il rischio di creare nelle rinnovabili una riedizione della dipendenza dal gas russo».
È deluso dall’esclusione dei biocarburanti dal novero dei combustibili ammessi in Europa per auto e veicoli commerciali leggeri anche dopo il 2035?
«I biocarburanti hanno così tante applicazioni industriali che la loro esclusione dal trasporto passeggeri non ha impatto sulle nostre prospettive di sviluppo. Ne stiamo già vendendo all’aviazione e la domanda per il trasporto aereo è destinata ad aumentare con i nuovi regolamenti europei».
Il governo italiano preme però per riaprire la trattativa sui biocarburanti per le auto.
«La logica suggerisce di sperimentare ogni soluzione disponibile per raggiungere un obiettivo. Vedremo se ci sarà spazio per riaprire la discussione in sede europea».
Gli Usa hanno stanziato 369 miliardi per la transizione energetica. L’incentivo dell’Inflation Reduction Act è una minaccia per l’Europa?
«Gli Usa godono già di un costo dell’energia molto più basso dell’Europa: il prezzo del gas è di sette volte inferiore. L’Ira sta attirando molti investimenti sulle tecnologie verdi in territorio americano: noi non ne siamo direttamente danneggiati, ma certo l’eventuale perdita di competitività dell’industria europea ci riguarda».
Avete stretto un accordo con l’americana Cfs per realizzare la prima centrale a fusione nucleare nei primi anni del 2030. L’annuncio ha suscitato qualche scetticismo: conferma l’obiettivo?
«Lo confermo perché Eni non è solo azionista di Cfs, ma collabora al progetto: siamo quindi in grado di verificarne i risultati che sono incoraggianti. Accetto lo scetticismo e sono consapevole che sull’atomo altri stanno sperimentando soluzioni diverse. L’importante è che la competizione non sia ideologica ma industriale, volta a trovare la tecnologia migliore».
Cosa intende?
«La popolazione globale è destinata a salire a 8-9 miliardi e la crescita demografica si concentrerà in Paesi dove l’accesso all’energia è limitato. Sarebbe un errore trascurare lo sviluppo di qualsiasi tecnologia in grado di fornirne con costi bassi e a emissioni zero».