Corriere della Sera, 29 aprile 2023
Intervista a Luciano Ligabue
Cantava Guccini: «Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni». D’accordo. Ma fischiettare un motivetto, fare spallucce e tirare dritto ignorando tutto e tutti non è che poi porti chissà dove. Vale dunque la pena valutare l’ipotesi di provare a lanciare qualche urlo contro il cielo. Così, anche solo per vedere l’effetto che fa. E perciò è preferibile non far passare troppi treni. Meglio afferrarne uno al volo e scendere alla fermata Primo maggio, uscita Piazza San Giovanni. Come ha fatto (più o meno) Ligabue, che dopo 17 anni tornerà sul palco del Concertone.
Scelta ponderata o istintiva?
«Decisione presa dopo l’ennesimo “perché no?” (e sono stati tanti nella mia carriera) che mi sono chiesto».
In giro si respira aria di intolleranza, ci sono conflitti in ogni angolo del pianeta, la precarietà (non solo lavorativa) ci insegue ovunque: la sua partecipazione alla Festa dei lavoratori è in qualche modo una risposta a questi scenari?
«Il Primo maggio resta sempre la festa di tutti i lavoratori e come tale è sempre una delle mie preferite. E se faccio fatica a chiamare “lavoro” lo scrivere canzoni e cantarle su un palco, è pur sempre vero che nei miei anni fra i venti e trenta, di “lavori veri” ne ho fatti parecchi e magari la mia passione per questa festa si è formata proprio lì. Detto questo, le canzoni e i loro autori non possono risolvere problemi così complessi ma un atto di presenza è pur sempre qualcosa».
Da Aurora a Mr. Rain, da Ariete a Tananai, da Fulminacci a Rocco Hunt: fra tanti giovani partecipanti al Concertone, su quel palco lei sarà un po’ come il padre nobile del rock?
«Beh, non so se posso definirmi “nobile” o “padre”. Facciamo “zio”?».
L’avevamo lasciata all’ultimo Campovolo con il rock denso ed elettrico di «Non cambierei questa vita con nessun’altra», la ritroviamo adesso con la ballad dal retrogusto nostalgico di «Riderai»: voglia di intimità o desiderio di riservare alle parole una corsia preferenziale?
«In questo periodo sto lavorando in studio con grande libertà. Immagino che prima o poi ne uscirà un album ma per il momento voglio godermi questa voglia di divertirmi ed esplorare suoni sui pezzi che sto via via scrivendo. E diversi di questi hanno un piglio rock. Quando, però, ho avuto “Riderai” fra le mani mi è venuta subito, istintivamente, la voglia di farla ascoltare in giro. Non so se le parole in questo contesto musicale troveranno una corsia preferenziale. Certo che mi piacerebbe. Sempre, però, pensando che saranno “parole cantate”».
«Riderai» sembra una lettera spedita a chissà chi. Proviamo a fare delle ipotesi: è indirizzata ad uno dei suoi figli? A sua moglie? O a sé stesso?
«Figli? Moglie? Me stesso? Fratello? Amico? Amica? Chissà... Mentre la scrivevo avevo molto chiaro a chi mi stavo rivolgendo ma preferisco che ognuno la interpreti come crede».
Comunque il brano appare come una sorta di flashback: superati i 60 anni si ha voglia di bilanci?
«Ne ho fatti pure troppi durante lo stop forzato causa Covid. Era forse la prima volta in vita mia e ne ho quasi abusato al punto che adesso ne ho un po’ piene le tasche e voglio, piuttosto, guardare avanti».
Al di là di tutte le interpretazioni, anche se le atmosfere di «Riderai» hanno le sfumature di momenti vissuti passati in rassegna, non manca tuttavia una dose di ironia...
«Esiste qualcosa di più “benefico” del ridere? È o non è una delle azioni che più ci contraddistinguono dalle altre specie animali? È chiaro che alla mia età viene un po’ più facile pronunciare la famosa frase: “Vedrai che fra un po’ di tempo ci riderai su”. Ce la siamo sentiti dire migliaia di volte e sapevamo che sarebbe andata proprio così ma nel frattempo ce ne dimenticavamo e ci facevamo prendere dalle ansie e dai pensieri di tutti i giorni. Certo, non arriveremo a ridere delle condizioni sociali in cui stiamo versando, ma mi piacerebbe che “Riderai” diventasse una specie di promemoria e che permettesse, a chiunque lo volesse, di ricordarsi di ridere o di alleggerirsi da ansie personali eccessive prima del tempo previsto».
Nei crediti del brano spunta il nome di suo figlio Lenny alla batteria. Ne è passato di tempo da quando cantava per lui appena nato «da adesso in poi ci proverò a farti avere il meglio che ho...» e probabilmente c’è riuscito: è un padre orgoglioso?
«Certo che lo sono. Lenny sta suonando la batteria in ognuno dei pezzi in cui stiamo mettendo le mani. Ha un orecchio migliore del mio e suona ogni strumento con un talento naturale. Inoltre nel gruppo di lavoro in studio è come se ci fosse stato da sempre».
Eppure ai nostri figli stiamo consegnando un mondo peggiore di quello che ci avevano lasciato i nostri genitori che uscivano da un conflitto mondiale: dove ha sbagliato la nostra generazione?
«Spesso ho usato (e uso) un certo “noi” nelle mie canzoni, è perché ho sempre sentito il bisogno di avere un gruppo di appartenenza (a volte anche solo sognato o agognato) con valori da condividere. Tolto questo, non sono mai riuscito a ragionare in termini di “generazione”. È un concetto troppo generico che non fa i conti con troppe differenze dei singoli. Personalmente avrò commesso anche parecchi errori ma di certo non mi faccio carico anche dell’avidità e della smania di potere che, banalmente, sono le prime due cause a venirmi in mente se parliamo delle condizioni sociali in cui ci troviamo».
A luglio torna negli stadi con due concerti a Milano e Roma e come warm up, ieri e l’altro ieri, ha tenuto due show a sorpresa nelle rispettive città: un modo per scaldare i motori a quattro anni di distanza dal tour «Start»?
«Di recente abbiamo fatto un po’ di concerti nei club europei. Mi sono divertito anche più del previsto. Così sono riuscito a farmene organizzare anche un paio qui da noi. E confesso che mi sono divertito altrettanto, soprattutto nel suonare “Riderai”, per chi c’era, proprio nei giorni della sua uscita».