Corriere della Sera, 29 aprile 2023
Intervista al promoter musicale Claudio Trotta
Claudio Trotta, era così buona l’amatriciana della mamma?
«Molto. Piaceva a tutti gli artisti che portavo in tour in Italia. Li facevo venire a casa e mia mamma cucinava per loro. Anche lei era un’artista, Lucy Darbi il nome d’arte. Era una ballerina acrobatica, una contorsionista, una showgirl: ad appena 23 anni ha abbandonato la carriera per la famiglia. E con mio padre mi ha aiutato ad avviare la mia di carriera, era il 1979».
La sua carriera, ovvero la costruzione della Barley Arts, quasi 45 anni di organizzazione di concerti, più di quindicimila concerti organizzati. Il meglio della musica, nazionale e internazionale. Chi sono stati i suoi primi artisti, quelli che hanno beneficiato dei bucatini?
«Artisti non estremamente famosi ma di grande sostanza e qualità. Penso a John Martyn, uno dei più grandi cantautori scozzesi, John Renbourn, David Bromberg e Bruce Cockburn, cantautore canadese. Il primo dei Bruce della mia vita».
Già. L’altro si chiama di cognome Springsteen. Come comincia l’avventura con il Boss?
«Con una bicicletta, in un concerto che non ho organizzato io».
Cioè?
«Era il 1985, fu Franco Mamone il primo a portare Bruce Springsteen in Italia, a San Siro, un concerto rimasto nella storia. A me per l’organizzazione aveva voluto dare un ruolo piuttosto ridicolo: dovevo girare in bicicletta attorno allo stadio e controllare che quelli del servizio d’ordine non prendessero soldi sotto banco da chi voleva entrare».
Poi però...
«Poi quando Franco se ne è andato, nel 1999 i concerti di Bruce ho cominciato a organizzarli io. E da lì è una storia che va avanti con trentasei concerti fatti in Italia, con tanti momenti passati insieme, anche divertenti».
Ce ne racconta qualcuno?
«Dopo il concerto di Padova, nel 2016 alloggiavamo ad Abano Terme, in un hotel pieno di tedeschi. C’era un’orchestrina che suonava il twist. Bevevamo grappa, io mi sono messo a ballare, lui rideva, mi ha detto: “Sei il king of twist”. Bruce è così».
Così come?
«L’antitesi di qualsiasi genere di follia divistica. Bruce è uno che sta lì a salutare i pompieri, i facchini. Oppure in piena notte prende e va in giro e si mette a chiacchierare con i fan. È estroverso, ma non quando lavora. È molto rispettoso del lavoro che fa ed è rispettoso verso il pubblico. Come quella volta a Napoli».
Che è successo a Napoli?
«Abbiamo fatto un concerto a piazza del Plebiscito, era il 2013. C’era davvero poca gente ed era il primo concerto che Bruce faceva in una piazza. Non si è scomposto. Quando è sceso dal palco il primo commento è stato: “Claudio, adesso sono pronto per le piazze”».
Trentasei concerti, compresi i prossimi. Per il tour di Springsteen del 2023, è vero che lei ha ridotto il numero degli ingressi?
«Sì. Al Circo Massimo a Roma abbiamo deciso di far entrare diecimila persone in meno rispetto al concerto del 2016 dei Rolling Stone. Anche a Monza per una capienza di centomila persone ho limitato gli ingressi a settantamila. È una mia filosofia. La quantità è meravigliosa, ma non deve andare a scapito della dimensione umana, del benessere psicofisico. Non si può pensare solo al fatturato. Per questo ho creato il “Comfort festival”(si terrà a Ferrara il 2 luglio): limitare al massimo la capienza per riappropriarsi dello spazio».
Come creare oggi un’industria come la sua?
«Impossibile».
Perché?
«Soprattutto per le scelte che ho fatto io, spesso impopolari. Oggi poi ci sono le multinazionali dominanti. Quando ho cominciato non c’era la Rete, c’era ancora la lira, usavamo il telex, non avevamo cellulari. Ma era un mondo dove la parola sfida, la possibilità di fare qualcosa che ti piacesse, ti rappresentasse, ti facesse guadagnare qualcosa era tangibile, reale».
Scelte impopolari ma di successo.
«Il successo per me non è mai stato quello commerciale e men che meno adesso quello dei like. Il successo credo sia poter essere se stessi, avere un’identità, qualunque essa sia. Io ho sempre provato a rappresentare quello che la mia mente, il mio cuore e il mio cervello mi dicevano di fare. È il mio modo di pensare: abbiamo una sola vita, cerchiamo di passarla essendo noi stessi. Riscoprendo il territorio, le radici non vanno mai dimenticate. Da questo punto di vista sono in buona compagnia».
In compagnia di chi?
«Dei grandi artisti americani. A cominciare proprio da Springsteen, Little Steven, Ry Cooder, David Lindley. Hanno alimentato le loro radici, le differenze e le contaminazioni. Trovo sia importante valorizzare le scelte culturali di molti artisti. Per anni invece si è alimentato il mondo del live rock e pop come un mondo di bizze e di follie. È sbagliato. Anche se poi, certo, episodi di assurdità ci sono stati».
Quali per esempio?
«I Sex Pistols con le loro bizze erano veramente pesanti da sopportare. I Jesus and Mary Chain una volta quando sono scesi dall’aereo la prima cosa che hanno chiesto è stata l’eroina. Li abbiamo rimessi sul primo volo. E i Motley Crue? Avevano come supporter i Guns N’ Roses: il concerto venne annullato perché tre sere prima di partire avevano avuto una notte eccessiva e hanno rischiato di morire. Però poi ci sono artisti di tutt’altra pasta come Frank Zappa, Tom Waits o Van Morrison, ad esempio».
Com’era Frank Zappa?
«Un artista e un uomo straordinario. Ma anche un despota con i musicisti, ogni giorno faceva fare loro un soundcheck lungo come tutto il concerto che poi durava due ore e mezzo con una scaletta diversa ogni sera. Nove sere di esibizione nel 1988, ho avuto la fortuna di cenare tutte le sere con lui quasi sempre da soli».
Tom Waits?
«Ha presente il film Dracula di Bram Stoker? È un personaggio complesso. Ha una moglie che scrive i brani insieme a lui. Tre giorni di concerti al teatro comunale di Firenze li ha passati quasi sempre con Benigni».
Qualcosa anche di Van Morrison?
«Era pieno di idiosincrasie. Voleva per contratto che lo portassi in giro io con l’automobile e ascoltavamo insieme tanta musica. Dopo il concerto mi chiedeva sempre di organizzare per fare delle jam con i suoi musicisti. Poi quando era tutto pronto guardava sdegnato e se ne andava. Però un artista al top».
Come ha fatto a portare in Italia tanti artisti di questo livello?
«Il mondo anglosassone non è stato facile da conquistare. All’inizio gli artisti inglesi e americani non ne volevano proprio sapere di venire in Italia. Nel 1979 andai in Inghilterra, fiducioso. Alla Bron Agency, una delle più grosse dell’epoca, ora non esiste più, ero andato per chiedere Eddy Grant, tra gli altri, artista reggae di seconda fascia: mi chiesero trentamila sterline, dieci volte il reale valore di mercato. Chiaro il messaggio: non abbiamo nessuna voglia di venire in Italia, un Paese dove non c’è professionalità».
Era effettivamente così?
«Bisogna contestualizzare. C’erano stati gli anni delle contestazioni, non si voleva pagare duemila lire per un biglietto, l’equivalente di un euro, viene da ridere oggi. C’erano sì le multinazionali ma nella discografia non ce n’era una dominante come invece adesso, con una concentrazione di potere senza precedenti. C’erano promoter indipendenti territoriali».
E i nostri artisti italiani? In tanti sono passati per la Barley Arts.
«Alcuni sono partiti con la Barley Arts».
Chi per esempio?
«Tiziano Ferro. Gli abbiamo insegnato a stare sul palco. Anche Mika l’ho lanciato io in Italia. Il suo primo concerto a Milano doveva essere ai Magazzini Generali, capienza mille persone. Poi è stato spostato all’Alcatraz, dove i posti sono tremila. Era entusiasta. Aveva sguinzagliato i collaboratori per cartolerie e laboratori teatrali in cerca di abbellimenti scenografici dell’ultimo momento. Ha una grande vocazione teatrale».
Anche per Renato Zero c’è stata la Barley.
«Renato è simpaticissimo, un artista straordinario. Direi che ha un rapporto particolare con i soldi, riesce ad avere lo sconto anche sui fiammiferi dal tabaccaio. Ama la buona cucina, conosce in tutta Italia ristoratori di grande qualità, ma di pagare il conto non se ne parla. Se a una cena con 50 persone 48 erano suoi ospiti voleva sempre che pagassi io. In questo è il contrario di Bruce, che non mangia mai dopo i concerti e se capita è sempre generosissimo».
Per chi altro ha organizzato concerti?
«Tanti. Per dirne alcuni: Gianna Nannini, Ligabue, i Negramaro, Elio e le storie tese, Litfiba, Niccolò Fabi, Le Vibrazioni. Artisti a tutto tondo».
Che dire di Ligabue?
«Non è facile interagire con lui, è molto introverso. Ma dopo una certa ora, davanti a un bicchiere di vino si può parlare di tutto».
La tempestano per avere biglietti omaggio?
«Chiedere biglietti omaggio in Italia è sempre stato un malcostume esagerato. Ma la mia policy è semplice: non esistono omaggi, il mio lavoro è vendere biglietti. Ho sempre detto no, anche a sindaci, politici, segretari di partito. Non devo niente a nessun partito e non ho intenzione di cominciare».
Lei ha combattuto molto il fenomeno del secondary ticketing.
«Sì e nel frattempo si sono inventati il dynamic pricing, ancora peggio. C’è un algoritmo che determina i prezzi variabili dei biglietti: da un minuto all’altro possono costare anche dieci volte di più. Questo in Italia ancora non c’è, ma temo che arriverà entro la fine del 2023».