La Stampa, 27 aprile 2023
Sul saggio di Sergio Romano “La democrazia militarizzata”
L’Italia laboratorio politico della modernità. A più riprese e, sovente, di formule politiche durevoli ma non commendevoli. Così, accanto ai vari populismi sfornati a getto continuo nel corso del Novecento e, più di recente, dopo gli anni Duemila, il nostro Paese ha prodotto anche i primi due esempi di «politica militarizzata», come evidenzia l’amb. Sergio Romano nel suo ultimo libro, La democrazia militarizzata. L’autore – già ambasciatore presso la Nato e in Russia – si immerge nuovamente nella storia del Secolo breve per dipanare «il filo rosso (e armato)» – o, per meglio dire, nero – che conduce da Benito Mussolini a Donald Trump e all’odierno tipo (non) ideale della «democrazia militarizzata». Il guerresco XX secolo ha generato dei «nuovi ceti sociali»: in primo luogo, i reduci e i veterani, incapaci di adattarsi veramente al ritorno alla vita civile dove avevano trasferito la forma mentis del combattente e l’inclinazione a ricorrere alla violenza. Ma anche i losers, per così dire, ovvero i settori della popolazione più duramente penalizzati dagli effetti della guerra: orfani, vedove, invalidi. Si trattava del “punto di caduta” di un processo iniziato con le guerre napoleoniche, quando il costituirsi della figura di un capo supremo e “assoluto”, il progresso tecnico applicato agli armamenti, la creazione in varie nazioni della coscrizione obbligatoria e i vasti moti rivoluzionari gettarono le basi per conflitti molto estesi. Quelle «guerre dei popoli» che, nella loro estensione, incrementarono sempre più la vastità dei massacri e delle carneficine.Così, quell’Italia delle guerre d’indipendenza che, nell’Ottocento, si ritrovò spesso al centro dei conflitti, ritornò protagonista e, giustappunto, laboratorio dei fenomeni “di lunga durata” derivati da queste trasformazioni anche nel secolo successivo. Una delle peculiarità dell’Italia novecentesca all’indomani della Prima guerra mondiale – e della «vittoria mutilata» – fu proprio quella del reducismo ex combattentistico che, saldandosi con i perdenti del conflitto, dette origine – scrive Romano – a «una nuova comunità delusa, frustrata e nostalgica che reclama il pubblico riconoscimento dei propri meriti e dei propri sacrifici (non solo medaglie ma anche indennizzi, pensioni, una più visibile e onorevole presenza nella vita sociale»). E che diventa una perfetta massa di manovra per una serie di “imprenditori politici” entrati in scena in quegli anni, lettori di Mazzini, Marx ed Engels e altri libri della palingenesi, e privi di remore nello sfruttare cinicamente le confuse aspirazioni rivoluzionarie che percorrevano le società uscite a pezzi dalla Grande guerra. Come il fondatore del quotidiano Il Popolo d’Italia, Benito Mussolini, «che oscilla continuamente fra socialismo e reducismo», come osserva l’autore.
Dall’Italia arrivarono, quindi, le manifestazioni originarie della militarizzazione della politica, a cui guardò il resto del mondo tra stupore, preoccupazione e imitazioni. Il primo esempio fu la Marcia di Fiume del settembre del 1919 condotta da un corpo di spedizione di 2500 volontari che risposero all’appello lanciato Gabriele D’Annunzio, destinati via via a crescere fino a che, nel dicembre del ’20, il governo Giolitti fu obbligato a usare la forza per riprendere il controllo della situazione. L’«impresa» fiumana non era ancora il fascismo, ma fornì l’almanacco di parole d’ordine e azioni (militari e comunicative) che ne avrebbero costituito il background: dalla retorica bellicosa al maschilismo, dalla spavalderia alla volgarità, il tutto – nella fattispecie – all’insegna di un linguaggio corsaro e beffardo “governato” da un poeta così noto e popolare da impensierire via via lo stesso Mussolini, che prese a guardarlo come un competitor. Ed è proprio lui al centro del secondo caso di politica militarizzata, con la Marcia su Roma dell’ottobre del ’22, in un clima de facto di guerra civile, innescato dai fasci di combattimento e dai nazionalisti, e di proliferazione delle milizie di ogni orientamento ideologico. Fu in questo contesto che si saldarono gli obiettivi di Mussolini, con la sua “tecnica di colpo di Stato” finalizzata a evitare che l’Italia diventasse uno Stato bolscevico o una Repubblica liberaldemocratica, e del re Vittorio Emanuele III, ovviamente intento a perpetuare la monarchia. Per irregimentare i fascisti, impregnati di mentalità combattentistica, che anelavano alla prosecuzione della battaglia e della violenza, Mussolini costituì la “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale”, fondata il 14 gennaio del ’23 quale braccio armato del Pnf. E mentre il fascismo si faceva partito-Stato, la sua milizia si convertiva in forza armata della nazione, e veniva dispiegata su numerosi teatri di guerra, dalla Libia all’Etiopia, dalla Spagna alla Grecia e in Nordafrica, fino allo scioglimento decretato nel dicembre del ’43 dal maresciallo Badoglio, per riapparire infine come Guardia nazionale dei repubblichini di Salò.
La militarizzazione della politica non ha rappresentato un fenomeno esclusivamente nazionale, e, dopo la “vetrina” italiana, le milizie dilagarono dalla penisola iberica alla Germania, dalla Russia ai Balcani, identificando la radice di accadimenti contemporanei come l’assalto dei trumpisti al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
Completa il libro un’utile e sintetica galleria biografica dei protagonisti delle vicende ripercorse – da Benedetto Croce a Carlo Rosselli, da Enrico Caviglia a Michele Bianchi – che aiuta il lettore nell’approfondimento.