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 2023  aprile 27 Giovedì calendario

Parla Alberto Guareschi, figlio di Giovannino

Non è vero che l’Italia di don Camillo e Peppone fosse migliore di quella odierna. Quando a 8 anni Alberto Guareschi si ritrovò ad avere per fratellastri immaginari i due di Brescello, il parroco burbero e il sindaco comunista, capì che suo padre era tanto odiato quanto amato: «Appeso alla porta della nostra casa milanese di via Pinturicchio trovai un disegno che lo raffigurava penzolante da una forca, con la scritta: “Sei il primo della lista”». A Giovannino Guareschi i «trinariciuti» non perdonavano le vignette su Candido e il manifesto con lo slogan «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!», che aveva contribuito alla sconfitta del Fronte popolare il 18 aprile 1948.


Suo padre era anticomunista, monarchico o cattolico?
«Era uno spirito libero».


Giovanni XXIII avrebbe voluto fargli scrivere un «piccolo catechismo» per il popolo.
«Don Giovanni Rossi della Pro civitate christiana propose l’idea a papa Roncalli e ottenne il suo assenso».


Cosa impediva al cristiano di essere democristiano?
«Diciamo che mio padre non era come il capo della famiglia Bianchi, il signor Cesare, “lercaromontinolapiroroncalliano”, e sua moglie Maria, un po’ “moroide”, cioè affascinata da Aldo Moro».


Pensa che Giovannino Guareschi sarebbe stato felice di avere una donna premier?
«Considerato che i personaggi più simpatici delle sue opere sono femminili, direi proprio di sì».


Anche se Giorgia Meloni è cresciuta nel Msi?
«La signora Bianchi, la suocera Cristina e Gypo simpatizzano per quella parte».


Il suo primo ricordo di lui?
«Tornava dai lager nazisti. Avevo 5 anni. Mi trovai davanti uno sconosciuto con il volto magro, lo sguardo intenso e un paio di baffoni. Pesava 46 chili, compresi stracci e zoccoli. Ma sorrideva».


Che cosa le ha insegnato?
«La coerenza e la dignità».


Lo ha mai contestato?
«Sì, da adolescente, e provo ancora dispiacere. Lo accusai assurdamente di essere troppo attaccato ai beni che si era procurato con il suo lavoro».


Sgobbava parecchio.
«Quando l’editore Angelo Rizzoli installò il marcatempo per far timbrare l’orario di entrata ai redattori di Bertoldo, mio padre prese il cartellino e ci scrisse sopra “culo”. A casa si era costruito lo studio nell’abbaino. Lavorava tre giorni e tre notti senza mai scendere. Calava con la corda un secchio e noi ci mettevamo dentro i generi di conforto: acqua, caffè, arance».


Ha venduto tantissimo.
«Saremo sui 25 milioni di copie. Ogni anno escono tre o quattro edizioni all’estero, l’ultima in turco. È pubblicato ovunque, persino alle Samoa. Tranne che in Cina. Lo hanno tradotto in greco antico e latino, in varie lingue con il metodo Braille e persino in milanese, friulano, bergamasco, bresciano e comasco».


Perché piace da 75 anni?
«Parla di persone vere, di verità non legate alle mode».


Nei libri lei è Albertino.
«Mi assegnò questo nome letterario. Poi nel 1957 mi ribattezzò Sputnik, perché, pur rimanendo nella sua orbita, mantenevo sempre la distanza di sicurezza».


Sua sorella Carlotta, morta nel 2015, era la Pasionaria.
«Come Dolores Ibárruri, cui mio padre la accostava per via della forte personalità».


Ora è rimasto l’unico custode del Club dei Ventitré.
«Per 30 anni ho fatto il ristoratore qui a Roncole Verdi. In seguito mi sono dedicato completamente a curare i volumi postumi di racconti».


Il club si chiama così perché Alessandro Manzoni si rivolgeva a «venticinque lettori» mentre suo padre diceva di averne due in meno.
«Non registriamo il numero di ospiti del nostro illustre vicino di casa Giuseppe Verdi, ma ogni giorno arriva un gruppetto di visitatori».


Vedo che il lampadario resta quello fatto con tre damigiane e tre imbuti.
«Guai a toccarlo. Se lo costruì mio padre. Gli piaceva».


Guareschi avrebbe avuto successo senza i film con Fernandel e Gino Cervi?
«Il valore letterario non lo hanno aumentato i film, semmai lo hanno leso. Il compagno don Camillo di Luigi Comencini è un completo tradimento del libro. Da tre sceneggiature mio padre ritirò la firma incavolato».


Ebbe rapporti conflittuali con i cineasti, ne deduco.
«S’intese poco o nulla con Julien Duvivier, il regista del primo Don Camillo . Però lo stimava: “È talmente bravo che può permettersi il lusso di essere antipatico”, ammetteva. Rizzoli, proprietario della Cineriz, dovette rivolgersi a un francese perché i registi italiani si erano eclissati, temendo le reazioni del Pci. In precedenza aveva tentato d’ingaggiare Vittorio De Sica, ma ne ebbe un rifiuto».


Conserva le pizze del film «La rabbia», che diresse con Pier Paolo Pasolini nel 1963?
«Certo. Sparì dalle sale perché il regista del secondo tempo ritirò la firma».


Per quale motivo?
«Gli amici comunisti, Alberto Moravia in testa, lo rimproverarono e Pasolini corse ai ripari. Qualche anno fa Giuseppe Bertolucci revisionò il film, tagliando la parte guareschiana».


Lei avrebbe pubblicato le due lettere del 1944, poi dichiarate false, con cui Alcide De Gasperi chiedeva agli Alleati di bombardare Roma «per infrangere l’ultima resistenza morale del popolo»?
«Sì. Umberto Focaccia, perito calligrafo del tribunale di Milano, ne aveva accertato l’autenticità».


Come ricorda il 26 maggio 1954, quando suo padre entrò in carcere a Parma per quello scoop di «Candido»?
«Mi pareva d’essere spettatore di qualcosa che capitava a un altro. La mamma tenne bloccato per tre ore in cucina il ministro dell’Interno, Mario Scelba, venuto a offrire a mio padre, asserragliato al piano di sopra, una scappatoia per non finire in prigione. Restò dentro 409 giorni».


La detenzione aggravò il suo stato di salute?
«Direi. D’inverno in cella la temperatura sfiorava lo zero».


Chi venne ai suoi funerali?
«Le persone giuste. Nessun politico. Pochi colleghi: Carlo Manzoni, Giovanni Mosca, Nino Nutrizio, Alessandro Minardi, Baldassarre Molossi, Enzo Biagi, Ferdinando Palermo. Ricordo, seminascosto, Enzo Ferrari, il cui figlio, Dino, aveva trovato conforto nei libri di mio padre durante la malattia che lo uccise».


Lei portò a spalla la bara.
«Con mio cognato e due muratori. Per molti anni era stato la prima “industria” di Roncole Verdi. Dal 1951 in avanti aveva fatto lavorare le maestranze del paese. Ma ci alternammo in molti».


Chiese lui la «Messa da requiem» di Verdi?
«Si tratta dell’invenzione di un cronista. Non fu eseguito alcun brano. Forse il parroco don Adolfo Rossi si ricordò delle ultime volontà espresse dalla maestra Cristina nel Don Camillo: “Voglio un funerale senza musica, perché la morte è una cosa seria”».


Davvero suo padre non la baciò né la abbracciò mai?
«A quei tempi avevamo pudore dei nostri sentimenti».


Lei fa lo stesso con le sue quattro figlie e i nove nipoti?
«Con loro è diverso».


Non cercava di abbracciare il loro nonno e bisnonno?
«Non era necessario. Sapeva che gli volevo bene».