La Stampa, 27 aprile 2023
Da "Filosofia del tatuaggio. Il corpo tra autenticità e contaminazione" di Federico Vercellone (Bollati Boringhieri)
Colui il quale si tatua è anche qualcuno che sceglie una prova dolorosa, e la attraversa per affermare se stesso. Tatuarsi significa accettare una prova eroica, una prova personale, che attraversa le culture. A questo proposito vanno presi in considerazione non solo i tatuaggi, ma anche le scarificazioni, che sono – come ci insegna Francesco Remotti – il loro pendant. Le scarificazioni sono ancora più penose del tatuaggio, in quanto, soprattutto per le tribù che le praticano, si tratta di sollevare la pelle e di inserire l’inchiostro nella parte interna della cute per creare uno sfondo di contrasto efficace con la superficie scura. La pratica è dunque ancora più dolorosa di quella del tatuaggio. A emergere è una sorta di improrogabile auto-posizione dell’Io che supera ogni frangente e ostacolo, addirittura quello rappresentato dal proprio stesso corpo. Per altro verso, tramite quest’atto di ricreazione del proprio corpo si rinnova proprio quella superficie che ne istituisce lo spazio relazionale, di contatto con il mondo.
Si diventa così se stessi anche a costo di dispiacere al mondo, e dunque di provocare in esso una sorta di disgusto. Questo aspetto affratella il tatuaggio agli altri fenomeni di quella che, per convenzione, si è definita mostruosità. Il soggetto, in tutti questi casi, è a suo modo unico e irripetibile. È l’iperbole senza confini di un io che si auto-crea a scapito del mondo e talora forse anche di se stesso. In più abbiamo a che fare con un modello di bellezza acquisito tramite la sofferenza. Quando mai potremmo dimenticare che proprio questo modello è una mimica, ovvero una ripetizione del modello cristiano della creatura dolorosa della quale Dürer ci ha resi edotti sulla base di un famosissimo testo biblico, Isaia, II, 55. È un modello di bellezza anticlassica, quasi una sua parodia, come nel caso della “Creatura del dolore” düreriana. Nella Croce si rinnova così – del tutto paradossalmente – l’ideale estetico, che non è più un ideale di serenità ed equilibrio, bensì accoglie la smorfia del dolore e il rischio del brutto. Essa prelude al tatuaggio che ne costituisce una singolare perversione.
In ambito medico e antropologico il tatuaggio e il corpo tatuato divengono un variegato ed eccentrico spettacolo. Si avvia un processo di spettacolarizzazione del corpo che ne destituisce la valenza ideale, propria delle poetiche classicistiche: il corpo non svolge più una funzione di modello figurativo e ideale e diviene invece una superficie pittorica disponibile alle più diverse rappresentazioni. Esso diventa una superficie che media nuovi mondi, uno spazio dell’immaginario che supera di gran lunga i due paesaggi cui il corpo nudo ci aveva abituati, quello della spettacolarizzazione della sofferenza e quello dell’incanto e della fascinazione della bellezza. La tendenziale attuale scomparsa del nudo e la ricorrenza sempre più intensa di corpi segnati ci mette dinanzi alla prospettiva di un corpo spurio che allude al posthuman, a una forma di umanità che non riconosciamo più con i nostri canoni abituali.
A questo proposito c’è da chiedersi cosa significa modificare il corpo proprio e quanto la pelle stessa – non solo quella reale, ma anche quella “metaforica” – sia estesa. Entriamo qui in un più ampio discorso, che è quello della comunità. La comunità è in questione come sistema di riconoscimento, laddove il corpo segnato evidenzia un’appartenenza; appartenenza che deriva per altro da un rovesciamento, e che da negativa (da simbolo di segregazione: il corpo del carcerato o del folle) può divenire positiva, aprendo lo spazio in direzione di una ribellione. Il corpo segnato diviene così il principio della comunità degli esclusi o di coloro che si autoescludono. Questo ci conduce in direzione di un altro discorso che riguarda la vera e propria estensione della pelle. Quello che si vuole suggerire è che potrebbe essere legittimo – ci si passi il paradosso – considerare la comunità stessa come una seconda pelle, come una pelle aggiuntiva che si somma a quella del corpo proprio e che fa da intercapedine e da elemento comunicativo tra interno ed esterno.
Da questo punto di vista proprio le sottoculture, così come tutto l’ambito delle modificazioni anche chirurgiche del corpo, ma anche per certi versi lo stesso Slow Food, divengono motivi centrali del mondo globale, di un market universale che restituisce capitalisticamente quell’identità intatta che l’alienazione capitalistica aveva sottratto. Anche il New Age fa parte di tutto questo ambito; il che rinnova, magari in maniera un po’ sorprendente, il legame del contemporaneo con l’arcaico già scoperto a suo tempo dalle avanguardie storiche, in particolare dall’espressionismo tedesco e dal cubismo. In questo processo, la pelle si esteriorizza sempre più. La sua funzione è sempre meno quella (pur indispensabile) di coprire, proteggere e avvolgere il corpo, e viene invece sempre più esaltato il momento del significato comunicativo della superficie cutanea, che diviene un linguaggio sostanzialmente immediato ed empatico votato a creare approvazione o disgusto. Forse nella storia non c’è altro simbolo che sia giunto più prossimo a una dimensione di questo genere della Croce, la quale rappresenta nuovamente l’ideale di una bellezza sofferente, e dunque il veicolo di reazioni opposte: di disgusto (Nietzsche) dinanzi all’idea che la mortificazione e il dolore possano farsi bellezza, o al contrario di esaltazione di questo passaggio apparentemente negativo nei confronti della vita e del suo fiorire, di laudatio quella che Paolo chiama la “follia della Croce” (Cor.1, 10-4,13).