ItaliaOggi, 25 aprile 2023
Il 25 aprile di Teresa Vergalli
«Il mio 25 aprile? Arrivai insieme al mio gruppo a Reggio Emilia il giorno prima, il 24. Eravamo stanchissimi per la lunga camminata, per le ore non dormite, per i piccoli scontri e per il dolore degli ultimi morti o feriti, a volte saltati sulle mine disseminate dai tedeschi in fuga. Eravamo sporchi di polvere e sudore, spesso tormentati dai pidocchi o dalla scabbia, con le gengive doloranti e gonfie a causa del cibo buonissimo ma sbagliato di quelle ultime settimane che era sempre e soltanto formaggio grana strappato ai tedeschi dalle gloriose e faticosissime rapine dei partigiani di pianura. Ricordo la stanchezza, la voglia di dormire e la volontà di andare a casa, cioè venti chilometri oltre, appunto per dormire ma dopo aver abbracciato mamma e fratello e soprattutto dopo un ricco ritorno all’acqua, al sapone e alla biancheria pulita. Poi arrivarono i cingolati, accolti festosamente e omaggiati con mazzetti di fiori di campo, la gente era curiosa perché vedeva per la prima volta persone di colore. Abbiamo saputo dopo che erano soldati brasiliani, entrati in guerra come alleati degli Stati Uniti». Teresa Vergalli, di Bibbiano (Reggio Emilia) ha 95 anni.
Nel 1941 incomincia a studiare alle Magistrali, la famiglia è antifascista, il padre (contadino) è attivo nella Resistenza. Lei non ha ancora 17 anni, decide di aiutarlo. I genitori cercano di dissuaderla perché è molto giovane, ma la sua determinazione ha la meglio.«Mi fu affidato il ruolo di staffetta, andavo avanti in strada con la bicicletta è quindi proteggevo la vita e la sicurezza di quelle persone che mi seguivano a distanza», dice. «Poi andai in montagna a fare da staffetta tra i distaccamenti della 144esima Brigata Garibaldi. Quanta paura di fronte ai rastrellamenti tedeschi, alla loro ferocia, ai lutti e alle rovine che si lasciavano dietro».
Mai pensato di abbandonare? «Mai, le motivazioni e la rabbia erano troppo forti», risponde. «Anche se sapevo quanto mi poteva succedere ma era un rischio che non potevo non correre. Sapevo che i fascisti, se arrestavano le staffette, le torturavano ma in modo davvero duro. Un fascista disse ’Con me parlano anche i morti’. Io ero terrorizzata da quello, una staffetta raccontò di essere stata tagliuzzata ovunque e sulle ferite le veniva messo il sale. Ma questo è solo ciò che si vedeva, non tutto quello che le era stato fatto».
Una adolescente in guerra, che ha ancora la forza di raccontare: «Con la mia bicicletta azzurra facevo da tramite con le formazioni partigiane nascoste in montagna, costituite anche da ragazzi che non volevano arruolarsi nella Repubblica di Salò e vivevano con documenti falsi, inseguiti dal regime e in estremo pericolo. Li accompagnavo in montagna, anticipandoli nel percorso per evitare posti di blocco o persone sospette che avrebbero potuto fare la spia. Oltre 20 chilometri al giorno. Portavo anche informazioni a voce, ordini operativi e notizie sugli spostamenti dei distaccamenti partigiani. Su pezzettini di carta, invece, scrivevamo l’elenco delle spese, le richieste di rifornimenti o i rapporti sull’esito di un agguato. Li ripiegavo e li nascondevo nelle trecce. A volte trasportavo anche un giornaletto che le formazioni garibaldine riuscivano a stampare, nascosto in una sporta insieme alle patate».
Però ci tiene a chiarire che non vuole essere definita un’eroina. «Non volevo fare l’eroina, ma c’era una ribellione generale dentro di me: avevo una reazione forte all’atmosfera di oppressione poliziesca e intellettuale, insieme alla consapevolezza del pericolo e dei dolori della guerra. C’erano partigiane, c’era chi aiutava da casa raccogliendo vestiti, farmaci e tutto quello che poteva servire. Eravamo un’armata di poveracci, giovani che non avevano esperienza di guerra ma talmente forti da bloccare i tedeschi. Quando capitavo nei posti di blocco avevo paura, ma resistevo. Mi avevano regalato una piccola rivoltella con un caricatore che conteneva tre pallottole. La tenevo nel reggiseno e pensavo che se mi avessero arrestato l’avrei tirata fuori e mi sarei sparata alla tempia perché non so se avrei saputo resistere alle torture».
Non solo l’impegno contro la dittatura e l’occupazione tedesca ma anche per il ruolo delle donne, in una sorta di femminismo ante-litteram: «Le donne ebbero un ruolo importante nella Resistenza: collaboravano con i combattenti e raccoglievano medicinali, vestiti e cibo per i partigiani, altre si occupavano di nascondere i ricercati. Avevamo organizzato una fittissima rete di donne che arruolavamo tra le nostre amicizie, pur con la paura che qualcuna parlasse e ci facesse scoprire. Poi c’erano anche le gappiste armate, che partecipavano agli attentati e catturavano prigionieri, proprio come gli uomini. Se ci siamo salvati è proprio grazie alla solidarietà di coloro che non hanno fatto la spia».
È andata nelle scuole a raccontare la sua esperienza, ha scritto libri, si è impegnata in politica e nel sociale. Non ci sta ad accodarsi al coro di chi definisce i giovani d’oggi superficiali e disimpegnati. «Se ci fosse necessità sarebbero pronti a fare la loro parte, non si lascerebbero sottrarre la libertà», dice: «Non si può vivere senza la libertà. La libertà di leggere un libro che ti piace, di esprimere la tua opinione, di spostarti da una città all’altra, di avanzare diritti su trattamento e paga al lavoro. O senza la libertà di andare a scuola, un traguardo privilegiato che ai miei tempi era riservato a pochi. Ecco, il 25 aprile è il simbolo di queste piccole e grandi conquiste ed emancipazioni».
Infine l’Ucraina, l’inaspettata guerra che continua alle porte di casa: «Una guerra assurda e cattivissima, forse più velenosa di quella di allora. Provo solidarietà, la paura è la stessa, il pericolo è lo stesso. Anche noi avevamo paura degli apparecchi che volavano alti per andare a bombardare Milano. Io ero a Reggio Emilia, e da lì si sentivano i rombi dei bombardamenti a Milano. Morivano civili, persone inermi. Proprio come in Ucraina. Le guerre moderne le fanno i civili, le donne i bambini i vecchi. Si combatte al fronte ma la distruzione colpisce i civili. È orribile».
Non è un caso che Teresa Vergatti, una delle ultime staffette partigiane che può raccontare la propria personale esperienza, sia acerrima critica di quello strano pacifismo che vuole la resa dell’Ucraina: «Qualcuno dice ’più combattiamo più facciamo durare la guerra» ma non combattere cosa vuol dire, qual è l’altra opzione? Far morire gli ucraini disarmati? Ci salviamo l’anima solo aiutando i fuggiaschi, donne e bambini che scappano? Bisogna anche fermare l’aggressore e non lo si può fermare a parole o mettendosi davanti ai proiettili e farsi ammazzare in modo romantico ma, al giorno d’oggi, inutile. L’aiuto a chi combatte deve esserci»