ItaliaOggi, 25 aprile 2023
Il mercato delle bugie
Non a caso, il Financial Times, pochi giorni fa titolava (con riferimento a Fox News) «The marketing of lies», il mercato delle bugie. Il tema esiste al di là del caso di Fox News e del pagamento da parte di Rupert Murdoch di 787 milioni di dollari di risarcimento alla Dominion Voting System, la società di software cui era stato affidato l’incarico di registrare i voti nel 2020. Fox News aveva accusato falsamente la società di avere truccato le elezioni presidenziali in danno di Donald Trump (e quindi a favore di Joe Biden) mentre il proprietario Murdoch ha preferito pagare l’ingente cifra di 787 milioni di dollari per evitare la pessima pubblicità che l’escussione dei testi (tutti concordi nel dimostrare la falsità delle accuse in un processo) avrebbe provocato alla sua emittente. Questa, in fondo, è una grave bugia il cui ambito è costituito dagli Stati Uniti dai loro alleati e, in fin dei conti, dai numerosi avversari esterni.
Di bugie s’è nutrito il mondo, da che mondo è mondo. Ma se veniamo ai tempi più recenti, non possiamo dimenticare l’annuncio dell’amministrazione Bush nel quale si sostenne che l’Iraq fosse in possesso di armi chimiche, biologiche e possibilmente nucleari, cioè di armi di distruzione di massa e che fosse pronto a usarle contro gli Usa e il mondo occidentale in intesa con Al Qaeda.
Esso fu alla base della strategia americana in Medio Oriente e del suo fallimento, visto che di armi di quel genere non fu trovata traccia. In proposito, segnalo che è uscito in questi giorni in America «Grand delusion: the rise and fall of american ambition in the Middle East», la grande delusione, il sorgere e la caduta dell’ambizione americana nel Medio oriente, di Steven Simon, analisi completa e fondamentale per comprendere la politica americana (che oltre all’Iraq comprende l’Afghanistan e la cosiddetta «Primavera araba» di Barak Obama).
Ma le bugie riguardano altresì l’Europa, la nostra amata e osannata Europa. Una delle ragioni principali che determinarono la scelta di puntare sull’Europa, come entità politica formale e autonoma, fu costituita dal timore della Germania e della sua capacità di tornare a essere la prima potenza del continente. Si disse e si scrisse allora che era necessario «annegare nell’Europa le permanenti ambizioni imperiali tedesche». E non è un caso che si scelse di partire con la Ceca, la comunità europea del carbone e dell’acciaio, settori in cui la Germania aveva esercitato un indubbio primato.Se Giulio Andreotti affermò sul finire degli anni ’80 «amo tanto la Germania, da preferirne due», fu evidente dopo ch’era trascorsa una decina d’anni dall’unificazione che «l’impero cui aspiravano i tedeschi e che stavano conquistando era l’Europa». Sensazione, questa, che spinse gli inglesi a separare le proprie sorti da quelle di una Unione europea a trazione tedesca. Sul punto «Brexit» fummo però inondati di bugie che non facevano cenno -è ovvio- alle fondamentali ragioni che la stavano determinando.
E che, in qualche misura, fosse permanente un disegno imperiale, è dimostrato addirittura dall’azione del cancelliere Willy Brandt (al potere 21 ottobre 1969 al 6 maggio 1974) il cui must fu costituito dall’«Ost-politik», l’apertura cioè di un canale diretto non intermediato dall’Europa di relazioni economiche culturali e politiche con l’Urss, nei tempi in cui era segretario generale del Pcus e sostanziale capo dello stato Leonid Brenev. Una relazione che ampliava il campo di esercizio della forza pre-imperiale tedesca all’Unione sovietica e che dava alla Repubblica federale un qualcosa in più rispetto a sodali europei.
Una politica, quella iniziata nel 1969 da Brandt che trovò la propria sublimazione con il cancellierato di Angela Merkel, giunta sino a legarsi quasi indissolubilmente alla Russia di Putin addirittura con due gasdotti, il North Stream 1 e il North Stream 2, che hanno costituito il cordone ombelicale dal quale Berlino traeva la linfa necessaria per il suo straordinario sviluppo. Uno sviluppo che includeva la Cina nell’ambito delle relazioni economiche privilegiate dell’industria e del governo federale. Non a caso, Joe Biden, in una delle sue prime conferenze stampa ebbe a esprimersi in termini totalmente negativi nei confronti dei due gasdotti: e non sono pochi e ritenere che le esplosioni che li hanno messi fuori causa e -per ora- non riattivabili siano da attribuire alla Marina Usa. Evidentemente la partita agli occhi di Washington non è chiusa, benché Putin abbia segnato una serie di autogol avviando l’aggressione ucraina e, forse, contando sulla neutralità tedesca che avrebbe impedito all’Europa e al mondo occidentale di schierarsi in modo concorde a sostegno di Kiev.
Se ripercorriamo i 14 mesi di guerra, dobbiamo prendere atto che il governo tedesco si è collocato nella retroguardia del sistema europeo rispetto al sostegno all’Ucraina. E le attuali difficoltà dell’Europa nel trovare una intesa sull’acquisto e sull’invio di adeguati rifornimenti di munizioni a Kiev, è figlia anche delle difficoltà tedesche di abbracciare in pieno le proposte dei partners. Oggi, mentre gli Stati Uniti stanno investendo per la ripresa nel loro territorio di attività industriali un tempo trasferite in Cina e stanno ragionando sulla concreta possibilità di procedere al «decoupling» (il disaccoppiamento delle economie dei due paesi, appunto Cina e Usa), la Germania attraversa a vele spiegate il mare delle relazioni con il paese di Xi Jinping ignorando i problemi strategici dell’Occidente, le minacce provenienti dall’Est e i tanti e gravi problemi che gli Usa e l’Occidente debbono affrontare nei prossimi decenni: evitare la guerra e la tracimazione del potere avversario.
E non possiamo nasconderci che la Russia e la Cina hanno armi non militari da spendere: vedi il caso Brasile (con Lula santificato in Italia a dispetto di una condanna per corruzione), i tanti casi in Sud-America (Cile, Argentina, Venezuela) e la questione africana. Rispetto a quest’ultima, però, occorre ricordare che ogni primazia è volatile, essendo i tanti regimi corrotti pronti a cambiare bandiera di fronte a offerte corruttive maggiori. Ma occorre altresì prendere atto che alcune operazioni (infrastrutture) cinesi e russe (militari, «boots on the ground» scarponi sul terreno) hanno elevate probabilità di consolidarsi trasformandosi in nuovi stati di fatto (e di diritto). La complicazione regna e dilaga nel «market of lies» che traduciamo liberamente nell’«età delle menzogne».