La Stampa, 25 aprile 2023
Stipendi senza limiti dei top manager
Sundar Pichai ha l’abitudine di svegliarsi fra le 6.30 e le 7. Ogni mattina dell’ultimo anno si è alzato con 168 mila dollari in tasca. Tanto ha incassato nelle prime sette ore di sonno di tutti i giorni del 2022 l’amministratore delegato di Alphabet, la casa madre di Google. Nei 12 mesi il suo stipendio ha toccato i 226 milioni, cioè 619 mila dollari al dì, 25.800 all’ora e 430 al minuto. O, se si vuole un termine di confronto, il compenso di Pichai è stato di 808 volte superiore al pur alto salario medio dei 190 mila dipendenti della società.
Non è un caso isolato. Secondo un’analisi dell’Economic Policy Institute, fra 1978 e 2021 il compenso dei manager delle 350 maggiori imprese statunitensi è aumentato del 1.460% e questo tenendo conto dell’inflazione. Non ne hanno invece tenuto conto i salari medi dei dipendenti che negli stessi 43 anni sono saliti soltanto del 18%. La tendenza pare destinata a proseguire: la retribuzione mediana dei ceo di Wall Street è aumentata del 6,3% nel 2022.
Il divario fra le remunerazioni dei capi-azienda e dei loro sottoposti si sta così ampliando a dismisura. Se nel 1965 l’ad di un grande gruppo americano guadagnava 20 volte un suo dipendente, oggi il rapporto è di 399 a 1. Detto altrimenti, l’ad incassa in un giorno più che un lavoratore in un anno. Ma come si è scavato questo solco? «Nel tempo gli investitori hanno cercato di legare sempre più i pacchetti retributivi degli amministratori delegati ai risultati dell’azienda, in modo da allineare gli interessi del mercato e dei manager», spiega Fabio Bianconi, managing director di Morrow Sodali, fra i principali consulenti nella corporate governance. «Gli azionisti dedicano quindi più attenzione al metodo impiegato per determinare la retribuzione e meno al suo ammontare: chiedono che i parametri di performance – economica, finanziaria o ambientale – siano misurabili e verificabili in maniera scientifica», prosegue. «È perciò aumentata l’incidenza sul compenso finale della componente variabile, legata anzitutto all’andamento della società in Borsa».
La corsa dei mercati azionari - e di Wall Street in particolare - ha così trainato la crescita degli stipendi, producendo un altro fenomeno curioso: la sottostima delle paghe dichiarate dagli ad. La retribuzione media riconosciuta ai top manager americani nel 2021 è stata di 15,6 milioni, mentre quella effettivamente intascata ha raggiunto i 27,2 milioni. Merito della differenza fra il valore teorico delle azioni all’assegnazione e quello effettivo al loro incasso.
Lo stipendio da 226 milioni di Pichai è frutto per esempio di una stima, probabilmente per difetto: la dimensione finale del suo compenso dipenderà da diversi fattori, soprattutto all’andamento di Alphabet in Borsa. L’ultimo piano del 2019 riconosceva sulla carta al manager un bonus di 277 milioni; in realtà, gli ha fruttato in tre anni 504 milioni, l’82% in più.
Simili emolumenti hanno suscitato proteste all’interno e all’esterno delle assemblee dei soci. L’anno scorso, per esempio, molti investitori hanno criticato i 100 milioni ricevuti dal ceo di Apple, Tim Cook, e i 212 milioni incassati dall’omologo di Amazon, Andy Jassy. Non è da escludere che tocchi anche a Pichai, se non altro perché Google ha appena annunciato 12 mila licenziamenti.
Qualcuno, intanto, inizia a dubitare della validità stessa del meccanismo che aggancia le remunerazioni ai dati economico-finanziari di una società. Gli ad delle grandi compagnie petrolifere, per esempio, hanno ottenuto lauti incrementi retributivi nel 2022 grazie all’impennata dei prezzi di greggio e gas. Davvero merito della loro gestione accorta? O della guerra in Ucraina?
La stessa domanda si pone per i colossi digitali come Apple, Google e Amazon. Il loro boom nel biennio 2020-21 è da ascrivere all’indubbia superiorità tecnologica o all’imprevedibile pandemia che ha costretto alla digitalizzazione le relazioni sociali e lavorative? «La paga strabiliante dei dirigenti premia la fortuna, non la capacità manageriale», ha chiosato il Financial Times.
«In Europa i livelli retributivi non sono paragonabili a quelli raggiunti negli Stati Uniti perché da un lato le aziende hanno dimensioni inferiori e dall’altro il controllo sociale è superiore», precisa comunque Bianconi. Ciò non toglie che alcuni casi abbiano fatto scalpore. Basti pensare al dibattito sui 7,5 milioni percepiti nel 2022 dall’ad di UniCredit, Andrea Orcel, e sui 23,5 milioni incassati da quello di Stellantis, Carlos Tavares. Il compenso assegnato al manager dell’auto nel 2021 (19 milioni) è diventato persino oggetto di scontro elettorale fra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron.
Quest’ultimo aveva promesso che, in caso di rielezione alla presidenza, si sarebbe adoperato per imporre un tetto a livello europeo ai compensi degli amministratori delegati. A quel proposito non sono seguite iniziative legislative, così come non ha avuto successo in passato il referendum in Svizzera volto a stabilire un rapporto massimo di 12 fra lo stipendio di manager e dipendenti.