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 2023  aprile 25 Martedì calendario

Michael J. Fox parla della sua malattia

Dondola la testa senza sosta e ha difficoltà a fare le cose di tutti i giorni, non riesce a lavarsi i denti. Ma di sé dice Michael J. Fox dice: «Non sono patetico». Cosa succede quando un incurabile ottimista si confronta con una malattia incurabile? L’ex enfant prodige di Hollywood che ha incarnato il sogno americano col suo sguardo acqua e sapone porta sul volto alterato, sulle mani che tremano l’evidenza della malattia. Le immagini alternano fiction, scene dei suoi film («quel dito non è il mio, forse è di qualcun altro, o forse era un messaggio per il futuro»), filmini familiari. Eccolo accanto a Cassius Clay che soffrì dello stesso male, o nelle foto da bambino, un batuffolo biondo. E poi gli anni dei party, delle Ferrari, degli autografi. Ma soprattutto c’è, oggi, il racconto in prima persona di un dramma che vive col sorriso. Non rinuncia al suo «inguaribile» ottimismo, fa capire che i migliori doni si hanno nei momenti più brutti. «Ho abusato di alcol quando, a 29 anni, mi diagnosticarono il Parkinson. Poi mi sono ritrovato». Il film in cui racconta ciò che il destino gli ha riservato è Still: la storia di Michael J. Fox. Si poteva intitolare Still Alive, Ancora vivo, e assumere tanti significati. Il regista è Davis Guggenheim, ha avuto molto successo al Sundance e sarà disponibile su Apple Tv+ dal 12 maggio.
L’attore si racconta a cuore aperto, nell’improbabile favola di «un ragazzino minuto cresciuto in una base militare canadese» che ha toccato le luci di Hollywood nel 1980, e si è scottato inciampando nel morbo di Parkinson. Ma dice che la vita può essere ancora bella. È un viaggio privato che non aveva mai mostrato, inclusi gli anni seguiti alla diagnosi quando era un attore spensierato e scanzonato. È la cronaca fedele dei suoi trionfi e delle sue sconfitte. Eccolo con il personal trainer e con la fisioterapista, esercizi fisici e vocali. Non voleva niente di apologetico e compassionevole. Dice che nei primi tempi «nessuno al di fuori della mia famiglia sapeva»; confessa che «non avere una via d’uscita è la cosa più tremenda». Ma il film ha il tocco leggero che racchiude tuttora l’essenza dell’attore.
Rieccolo intervistato anni fa nel talk show di Dave Letterman, già malato, dà scacco matto al pietismo: «I bambini sono fantastici, i miei figli mi chiedono: la vuoi smettere di muoverti sempre?». «Con quel misto di avventura e romanticismo, commedia e dramma, guardare il film sarà come… Come un film di Michael J. Fox», dice il regista, che aveva letto un’intervista al New York Times in cui l’attore raccontava «la brutale caduta che ebbe a casa sua in cucina, si ruppe un braccio, era da solo, non riuscì a raggiungere il telefono, aveva insistito perché la sua famiglia uscisse». Andrà tutto bene, disse ai familiari, con quel modo di dire così americano.
In una vecchia intervista in tv gli chiedono: lei è consapevole che il pubblico la guarderà con occhi diversi? E lui: «Qualcuno mi rifiuterà, altri non capiranno, non mi accetteranno». Il regista aveva pensato che il film fosse «un’operazione semplice». Il cuore è una conversazione tra loro due. Ed è come se a 61 anni la spensieratezza di Michael si rinnovasse in una illusoria scintilla di eternità.
Il regista non aveva una lista di domande. «Sì, è una malattia incurabile, e non mi spaventa. Quando i medici si pronunciarono la prima volta, ero incredulo, dissi, beh questo non può succedere a me. Negli ultimi tre anni ho rotto entrambi i femori, la faccia, una mano. Ho rotto un sacco di cose. Ho capito che potevo morire. Quando David mi ha chiesto se sto soffrendo, gli ho risposto che soffro ogni giorno. Non è solo l’handicap fisico, ma anche emotivo, il fatto di svegliarsi ogni giorno e dover scivolare attraverso tutto questo. La malattia è un altro segmento incredibile della mia incredibile vita. È una sfida con la malattia, con la reazione che vedo negli occhi della gente che incontro, con la possibilità di fare ancora buone cose».
Il suo Ritorno al futuro (come il film che gli diede le ali) lo vede testimonial della malattia, ha una Fondazione per la ricerca, ha interpretato in The Good Wife (sfidando gli stereotipi sui disabili) un avvocato col Parkinson che lo usa per manipolare le giurie. Da attore giovane aveva ritmo e tempi perfetti di recitazione, come un grande comico; ora le sue parole arrivano a scatti, oppure rallentate.
«Sono andato via di casa a 17 anni e a 21 sono diventato la nuova star del cinema. Mi sono confrontato col successo, la gioia e l’andar fuori di testa. All’inizio ho elaborato la mia tristezza e la mia depressione bevendo troppo. Ma quella non poteva essere la fine della storia. Ho cercato una nuova strada per vincere e cavarmela. Con l’aiuto di mia moglie Tracy ce l’ho fatta». Sua moglie non l’ha mollato un attimo. «Non mi voglio perdere cosa viene dopo. Se sono felice, è per la mia famiglia, Tracy, che conobbi sul set della sit-com Casa Keaton, e i miei quattro figli che amano la vita, e questo, oggi, vuol dire qualcosa».
C’è un prima e un dopo nella sua esistenza. Ma anche il dopo è pieno di vita.