Corriere della Sera, 25 aprile 2023
L’«egiziano» e il cammelliere: i golpisti del Sudan
Il cammelliere che divenne generale e il generale che si volle presidente, il trafficante d’oro del Darfur e l’ex cadetto nato sulle sponde del Nilo, l’arricchito outsider di provincia e il predestinato ufficiale di carriera nel Paese dei 16 colpi di Stato, il protetto del Cremlino contro l’aspirante al-Sisi di Khartum. L’inferno del Sudan si deve a due uomini d’armi e ai loro rispettivi clan con Paesi alleati allegati, due incalliti golpisti che più diversi non potrebbero essere.
Mohammed Dagalo detto Hemeti (piccolo Mohammed), classe 1974, capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) forti di 100 mila miliziani, si è fermato alla terza elementare. A 13 anni portava cammelli da una parte all’altra del confine con Libia e Chad. La sua autobiografia prevede 10 anni nel Paese di Gheddafi. Torna in Sudan dopo che alla famiglia hanno rubato 7 mila bestie e rapito diversi parenti. È in 2003 in Darfur: il 25 aprile di vent’anni fa comincia una guerra tra etnie locali e arabi appoggiati dal centro. Hemeti si schiera per sei mesi con i ribelli e poi passa ai governativi: sarà un capo Janjaweed, i diavoli a cavallo accusati di crudeltà e massacri.
Nello stesso periodo anche Abdel Fattah al-Burhan, oggi 62 anni, è da quelle parti: il presidente-dittatore Omar al-Bashir ha incaricato gente come lui della repressione che rasenta il genocidio: generale addestrato in Egitto e Giordania, famiglia del Nord del Paese da dove provengono i quadri dell’esercito sudanese, Burhan torna a Khartum avendo fatto con discrezione il suo sporco lavoro. Anche il provinciale Hemeti prende la via della capitale: nel 2013 al-Bashir lo chiama a capo di una milizia che ai suoi occhi ha il compito di bilanciare il potere dei militari e fargli da scudo.
Uno Stato, due eserciti: la radice dello scontro attuale. Con il perdurare dei moti popolari del 2019, guidati anche dalle donne e cominciati con la protesta pacifica per il costo del pane, Burhan e Hemeti si alleano e mollano al-Bashir. Per un brevissimo periodo, l’ex cammelliere sembra l’uomo del popolo e delle periferie, ma i suoi uomini massacrano i manifestanti anche dopo la caduta del dittatore. La pallida transizione democratica dura fino al colpo di Stato del 2021, con la caduta del governo a guida civile. I due golpisti all’apparenza uniti: Hemeti in realtà vuole essere presidente, Burhan vuole neutralizzarlo chiedendo che le sue Forze rientrino nei ranghi di quell’esercito che pure non ha mai visto alla pari «i bifolchi» dell’Rsf.
Le stellette del Nilo contro le ricchezze accumulate da Hemeti grazie ai mercenari forniti ai sauditi in Yemen e all’oro del Darfur da contrabbandare in Russia via Emirati, con le milizie addestrate in Libia dalla Wagner di Prigozhin, lo chef di Putin, all’ombra del generale Kalifa Haftar. Una russian connection per cui oggi il segretario di Stato Usa Antony Blinken si è detto «molto preoccupato».
Una sfida all’ultimo uomo, con i civili vittime in ogni caso. Burhan ha come modello protettore l’omonimo al-Sisi, padre-padrone dell’Egitto che auspica sul confine Sud una replica del suo regime, che magari si schieri con Il Cairo contro la minaccia della diga sul Nilo costruita dall’Etiopia. Certo, gli Emirati amici di Hemeti sono anche finanziatori dell’Egitto a rischio bancarotta. Imbarazzi incrociati. Ecco perché gli stessi sauditi, preoccupati di avere un Paese in fiamme sull’altra riva del Mar Rosso, se proprio non ci può essere un rapido vincitore a Khartum vorrebbero un accordo tra i due nemici. Stabilità sempre, democrazia mai.