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 2023  aprile 25 Martedì calendario

L’antifascismo della Lega a fasi alterne

«Noi della Lega siamo la continuazione dei partigiani che hanno combattuto per la libertà». Sì, sono passati poco meno di trent’anni, ma se oggi Lorenzo Fontana e Luca Zaia possono celebrare il 25 Aprile con espressioni che raccolgono il plauso della sinistra è perché alle loro origini politiche c’è Umberto Bossi (la frase è del 1994). L’uomo della canottiera proletaria che agli albori del leghismo professava il suo convinto animo antifascista (e pazienza se poi si dovette sedere più volte al tavolo di governo con i «fascisti»), unica vera alternativa al centralismo per sua natura espressione di uno Stato autoritario. Quindi, fascista tout court per il Senatùr che rivendicava con orgoglio di venire da «una famiglia di partigiani che hanno combattuto militarmente per la libertà».
Su quel Carroccio in tre decenni sono saliti in tanti. Nella sua lunga marcia ha accolto a bordo anche personaggi con una cultura di destra che hanno convissuto, nemmeno troppo da separati in casa, con i bossiani. Mario Borghezio, per esempio, che si formò «sugli scritti di Evola e di Guénon» e fu affascinato «dalla battaglia dei “pieds noir” d’Algeria». E con lui altre figure minori che dentro la Lega hanno rappresentato l’anima securitaria e sovranista, dopo la svolta salviniana.
L’antifascismo leghista è una sorta di fiume carsico. Compare e scompare, ma continua a scorrere. Ha seguito l’evolversi delle stagioni politiche. Con Bossi era impetuoso. Bobo Maroni, da ex gruppettaro, aveva un’istintiva avversione per l’autorità (ma anche lui si ritrovò, per paradosso, a forzare la sua natura vestendo per due volte i panni del ministro dell’Interno). E poi Gianfranco Miglio, il teorico del federalismo, l’antitesi filosofica e politica del centralismo di «Roma ladrona».
La svolta sovranista
Dal 2017 il segretario ha sterzato verso
la Lega nazionale
e ha virato più a destra
Non fu per caso, quindi, che Massimo D’Alema, in un celebre pranzo, definì la «Lega una costola della sinistra». E qui, di nuovo, per ciò stesso «antifascista». Pur senza farne un vessillo, senza considerare il 25 Aprile davvero una festa della Liberazione. Perché quella vera doveva essere l’affrancamento dal giogo centralista.
Per anni il fiume carsico si è inabissato. Ed è parso esaurirsi quando il già «comunista padano» Matteo Salvini ha sterzato bruscamente verso la Lega nazionale, senza più declinazioni cardinali. Lì il Carroccio si è allargato ed ha accolto figure con una storia di destra (vedi l’attuale sottosegretario Claudio Durigon, al centro di polemiche per la proposta di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini). Tra il 2017 e il 2019 il leader ha ammorbidito i toni bossiani. La svolta sovranista consigliava parole più sfumate, strizzatine d’occhio. «I fascisti hanno fatto tante cose... Come introdurre il sistema delle pensioni» disse Salvini nel gennaio 2018 in garbata polemica con il presidente Mattarella.
E anche in Europa la preferenza è andata al rapporto con Marine Le Pen piuttosto che alla ricerca di un’apertura di dialogo con il Partito popolare (voluto, guardacaso, dal bossiano Giancarlo Giorgetti). Ma poi l’acqua di quel fiume rispunta sempre. Anche, o soprattutto, quando serve marcare una differenza, quando occorre recuperare uno spazio politico. È in quel momento che i leghisti tornano alle radici e ammettono: «Non possiamo non dirci antifascisti».