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 2023  aprile 24 Lunedì calendario

Intervista a Gino & Michele

Gino Vignali e Michele Mozzati, come vi siete conosciuti?
MICHELE:«Secondo me ci siamo incontrati a casa di un amico, in una di quelle feste di liceo in cui si tiravano giù le tapparelle per i lenti».
GINO: «Per me è tutto legato alla passione per il cabaret, a quel tempo c’erano i Gufi, che erano in quattro: con un mio amico d’infanzia ci siamo messi a cercare gli altri due, e li trovammo in un oratorio. Tra questi c’era Michele, che cantava».
MICHELE: «Così sono nati i Bachi da Sera, delizioso calembour... (risata). Era il ‘68 o ‘69».
E poi cos’è successo?
G: «Il gruppo si è sciolto e diversi anni dopo, cominciavano a nascere le radio private. Nel ’76 ci siamo presentati a Radio Popolare, per proporre un simil-cabaret».
M: «Volevamo fare gli Arbore e Boncompagni della sinistra, eravamo due pirloni, che amavano Battisti, allora vietatissimo dai compagni».
G: «Però vantavamo buone credenziali, avendo fatto il 68, io alla Bocconi e lui alla Statale».
Cosa ne venne fuori?
G: «Una trasmissione che ebbe un successo incredibile: nel quartiere, ovviamente (ride). Si chiamava Do you remember sixty eight, e facevamo un quiz sul 68. Domande tipo: da chi era composta, da sinistra a destra, la terza fila del servizio d’ordine del 1° maggio 1971?».
M: «In una radio in cui si parlava di sfruttamento, di sindacato, di occupazione, facevamo i cazzoni. Nacque così il brand Gino & Michele».
G: «A quel punto Oreste Del Buono ci portò a “Linus” e il giornalista Maurizio Chierici ci premiò al premio di satira Forte dei Marmi per un libro che pubblicammo con Samonà e Savelli».
M: «Nel ’79 con Nico Colonna, per aiutare Democrazia proletaria, fondammo “Smemoranda”. Erano più i direttori che i dipendenti».
G: «Sempre Chierici ci propose al “Mondo”. Il direttore, Panerai, lesse il primo pezzo e disse: va bene, ma sul giornale di Pannunzio non uscirà mai un articolo firmato da due coiffeur».
M: «Aveva ragione, siamo pieni di gente che ci manda insegne di coiffeur Gino & Michele».
Jannacci quando l’avete conosciuto?
G: «Sempre per Radio Popolare pensavamo alla sigla di una nuova rubrica. Nel ‘79 era nato “L’Occhio”, il giornale di Maurizio Costanzo, e decidiamo di farne la parodia. Così scriviamo “L’orecchio”: “E la bobina continua a girare...”. Abbiamo dato il testo a Jannacci, e viene fuori la canzone “Ci vuole orecchio”».
M: «Il testo è banale, ma in realtà c’era dietro tutto un discorso politico: la base era anche la base sociale. Volevamo spiegare perché l’intellettuale, che nella canzone è il sassofono, non deve essere separato dalla gente. Naturalmente il discorso politico fu colto da tutti. (Ride)».
G: «Enzo aggiunse solo un verso: “bisogna avere il pacco immerso dentro al secchio”. Una sera ci chiama, appoggia la cornetta sul pianoforte e ci fa sentire il pezzo».
M: «Alla fine ci fa: la metto nel mio 33 giri... Noi felici, anche se non avevamo più la sigla».
G: «Enzo era il più artista di tutti, poteva guardare le scale mobili e dire: chissà dove vanno a finire i gradini... E poi farci su una canzone».
M: «In realtà con lui sono stati due o tre anni di amicizia molto intensa, in cui succedeva di tutto: non parlo di droghe, alcol o sesso, ma l’idiozia pura. Per esempio diceva: dai, prendiamo la 500 e attraversiamo la Galleria da piazza della Scala a piazza Duomo. Lui girava in vespa, ma la usava senza cavalletto, scaraventandola contro un muro con la speranza che restasse in piedi. Mentre 9 volte su dieci cadeva per terra».
Come sono nate le «Formiche»?
G: «Per caso: lavorando coi comici ci è venuta l’idea di fare un sondaggio tra gli amici per eleggere la battuta del secolo tra un elenco di cento. Una sera allo Zelig abbiamo proclamato le dieci battute migliori, lette da Bisio e da Catania».
M: «Gaber ci telefonò per dirci: sapete che non ce n’è una che mi faccia ridere? Aveva un umorismo molto particolare».
La vincitrice?
G: «“Era un bambino saccente, un giorno gli chiesero: Ma tu credi in Dio? Rispose: Beh, credere è una parola grossa, diciamo che lo stimo”. Non è Woody Allen, ma Walter Fontana, un autore televisivo allora del tutto sconosciuto».
M: «Da lì l’idea di un libriccino. Alla Mondadori ci dissero che non poteva funzionare».
G: «Un giorno viene a trovarci Oreste Del Buono, che era direttore dei tascabili Einaudi, e ci dice: non avete niente da propormi? Ha avuto un bel coraggio. Ci arrivò il contratto con il titolo monco: “Anche le formiche nel loro piccolo...”. La ragioniera disse che non se la sentiva di scrivere “s’incazzano” su carta intestata Einaudi».
M: «Fu uno scandalo che Einaudi facesse un libro di battute. La prima edizione vendette un milione di copie. Un giorno dovevamo andare a presentare il libro a Città di Castello e Giulio Einaudi ci mandò il suo autista, che ci ringraziò per avergli salvato il posto di lavoro».
G: Nel catalogo dei tascabili, grazie a Del Buono, siamo tra Proust e Balzac (risata)».
Vi siete arricchiti?
M: «Con la televisione. Per il libro avevamo destinato i guadagni a un centro di prima accoglienza, Nord-Sud di Fizzonasco. Pensavamo di incassare due-trecentomila lire».
Qual è stata la svolta della vostra carriera?
G: «La televisione. Abbiamo cominciato ad Antenna 3 nell’84 con Beppe Recchia. Mille ore di diretta senza capire molto, con la testa ancora nella satira. La trasmissione era “Lo squizzofrenico”, una boiata tra futurista e punk».
M: «Lavoravamo ancora, io a Emme Edizioni come editor e Gino al controllo di gestione in aziende importanti. Abbiamo mollato tutto».
G: «Dopo il debutto televisivo, mio padre al telefono mi disse quattro parole: ti devi solo vergognare. Punto. Questo è stato l’incipit. Beppe Recchia poi ci portò in Fininvest a “Drive In”, conoscemmo Antonio Ricci che in pochi anni ci insegnò la grammatica della televisione».
Esperienze memorabili?
G: «Abbiamo fatto anche “Matrjoska”, che fu subito censurata e divenne “L’araba fenice”. Antonio aveva preso il coro dei ragazzini di Cl montandogli sopra Moana Pozzi nuda avvolta in un cellophane. Berlusconi si incazzò e la bloccò».
M: «Moana era una signora squisita, credibile, per niente finta. Quello che ti aspetti da una bella e serissima manager, però nuda».
Poi venne Zelig.
G: «Zelig nacque, con Giancarlo Bozzo, per pagare l’affitto del locale, viale Monza 140, un localaccio pieno di fermento artistico ma che faceva fatica a stare in piedi. Non riuscivamo a vendere il progetto in televisione. Angelo Guglielmi, con il quale avevamo fatto “Su la testa” di Paolo Rossi, ci adorava, voleva che facessimo un “Bagaglino” di sinistra, e ci disse: questa non è una trasmissione, è una ripresa televisiva».
M: «Noi volevamo riprendere il cabaret a teatro come si riprende una partita di calcio».
Ora «Smemoranda» e Zelig sono in liquidazione. Cos’è successo?
G: «La tempesta perfetta. Il Covid con la Dad nelle scuole, l’aumento dei costi, la guerra... Non riuscivamo più a sostenere i debiti. Molto di quello che abbiamo guadagnato lo abbiamo investito nel gruppo. Comunque a rischiare non era affatto il marchio Zelig che ormai è di proprietà di RTI, azienda mediaset, quanto lo storico locale di viale Monza. Per questo, con Bozzo abbiamo deciso di prenderlo in affitto scongiurandone la chiusura. Lo stesso è stato fatto da Preziosi con “Smemoranda”, che continua».
M: «Purtroppo è andata così, ma non ci pentiamo di niente».
Grandi sorprese da talent scout?
G: «Tante. Paolo Rossi sul palco è impressionante. E Aldo Giovanni e Giacomo... La prima volta che ho visto i bulgari, 5 minuti senza aprire bocca..., piangevo dal ridere e mi sono detto: basta con la satira, voglio fare l’autore comico».
M: «E poi c’è Claudio Bisio, generoso, altruista, mister Zelig, nel senso di Leonard Zelig, il protagonista di Woody Allen».
G: «Quando Checco Zalone ancora non era un Dio ma un comico balbettante strepitoso, Bisio riuscì a proteggerlo e valorizzarlo».
Zalone come l’avete trovato?
G: «Dall’Italia gli autori ci mandavano allo Zelig i comici più interessanti per i provini, che venivano fatti a sala piena. Questo qua è arrivato una sera da Bari, non ne sapevamo niente, mai sentito: sale sul palco in canottiera rosa e la prima frase che dice è: voglio innanzitutto salutare gli amici detenuti della casa circondariale… È bastato per farci accendere tutte le spie».
M: «Scendevano dal treno, la sera salivano sul palco e qualcuno magari poi dormiva in stazione per ripartire la mattina dopo. La leggenda narra che Zalone, quando ha visto che era l’ultimo, ha chiamato sua madre: sono a mezzanotte, figurati se mi prendono».
G: «Poi ha fatto anche la parodia dei neomelodici, ed è venuto giù il teatro. Preso subito».
Altre sorprese?
M: «Un giorno ci telefona il critico Renato Palazzi dalla Scuola Paolo Grassi: ho qui uno che fa per voi. Era un attore che aveva lavorato osservando i malati in una casa di cura. Salì sul palco con un personaggio timidissimo, che si chiamava Tolmino, non ancora Epifanio, e indossava il cappottino della mamma di Palazzi».
G: «Antonio Albanese debuttò in televisione in “Su la testa”, e una sera fece Epifanio salutando: “Ciao miao bau”. La mattina dopo mi alzo, faccio colazione e dalla finestra vedo alcuni studenti che si salutano facendo “ciao miao bau”. In una sola serata, Epifanio aveva già sfondato».
Come andò con Grillo a Sanremo nel 1989?
M: «Ci chiamò con Michele Serra... e arrivammo di corsa. Durante lo sketch del sabato, Gino era nascosto tra i fiori del palco con i fogli in mano per ricordargli le battute… Fiore tra i fiori».
G: «Faccio fatica a ricordarmi. Grillo era il re della foresta nella giungla dei comici. Ricordo solo che ci mise in una pensione di Nervi a una stella, forse con il bagno fuori... (ride)».
M: «Alla fine della serata, noi siamo scappati subito e lui è andato a rifugiarsi in hotel da Dori Ghezzi e Fabrizio De Andrè. Era inseguito dal direttore della Rai».