La Stampa, 24 aprile 2023
Gianni Vattimo parla della destra
«Il pensiero non è un circuito chiuso, è un cammino. Quello che sta accadendo oggi in Italia e nel mondo necessita di categorie interpretative aggiornate», afferma il professor Gianni Vattimo, 87 anni, in uno dei numerosi pomeriggi in cui casa sua si anima di ex studenti e amici che passano a trovarlo nel cuore antico di Torino. Prosecutore del pensiero di Martin Heidegger ed ex europarlamentare, il filosofo intreccia nella conversazione frammenti di teoretica e riflessioni sull’attualità: Ucraina e destra al governo («non ci siamo accorti che stava prevalendo»).
Dal revisionismo storico su fascismo e Resistenza ai nuovi muri culturali e materiali contro le migrazioni, si aspettava la destra al potere in Italia?
«È il frutto di un’erosione in corso da tempo. Prendiamo ad esempio le migrazioni: avvengono da sempre ma la destra le strumentalizza come apocalittiche. E la sinistra quando era al governo non ha fatto granché nella politica migratoria, anzi spesso l’ha indicata come un male da fronteggiare. Dovremmo interrogarci sulle nostre colpe nella riemersione di una destra nazionalista e xenofoba. Quello che la sinistra ha ignorato o omesso ha spalancato le porte al quadro politico odierno. E semmai è proprio il modo in cui avvengono le migrazioni che è apocalittico cioè senza pietas né umanità. Ossia vecchie carrette del mare sovraffollate, governi che respingono e mettono in pericolo vite, chiacchiere da bar nei talk show che accentuano la percezione dell’odio etnico».
Sui migranti l’Italia rischia l’isolamento in Europa?
«Dell’esecutivo Meloni mi preoccupa la vicinanza alle idee di leader populisti come l’ungherese Viktor Orban ma non solo lui. Fra le altre cose, inquieta la chiusura mentale sulle famiglie "non tradizionali". Andrebbe ascoltato l’accorato appello del Pontefice a "pensare e generare un mondo aperto" lanciato nell’enciclica Fratelli tutti. E proprio "fratelli tutti?" è stata la domanda che ci siamo posti pochi mesi fa io e altri studiosi. Ne è nato per l’editore Castelvecchi un saggio su credenti e non credenti in dialogo con Francesco ».
E qual è la sua risposta?
«Il richiamo del Pontefice a "pensare e generare un mondo aperto" è più che mai pressante. Ciò che mi sta più a cuore è proprio mettere al centro la questione delle migrazioni. Un tema ancora poco presente nelle politiche mondiali, non solo europee. La verità è che ci stiamo allontanando gli uni dagli altri quando invece, dopo la terribile esperienza dell’isolamento per il Covid, dovremmo ripensarci appunto come "fratelli tutti"».
Per citare un suo saggio, cosa c’è «dopo la cristianità»?
«Nuove possibilità di senso scaturite dall’inveramento delle premesse cristiane. La secolarizzazione ha paradossalmente aperto un nuovo spazio alla religione, ad un cristianesimo rinnovato, finalmente libero da ipoteche metafisiche e fondamentalistiche. La missione del Papa è determinante. Abbiamo solo qualche mese di differenza e, secondo il mio parere di "vecio", per un periodo dovrebbe distogliere la mente dalle preoccupazioni che accrescono il già oneroso impegno di essere la guida spirituale di noi che a Cristo guardiamo. Qualche mese fa mi accordò un’ udienza ma poi non se ne fece nulla per via degli incessanti impegni che lo vedevano in giro per il mondo. Spero che adesso accetti il mio umile invito al riposo. E vorrei tanto poterlo riabbracciare a breve».
Nella guerra in Ucraina il Vaticano e papa Francesco possono avere un ruolo di mediazione e pacificazione come quello svolto dalla Ostpolitik della Santa Sede e da Giovanni Paolo II?
«Non mi sento di avvicinare storicamente i due papi e i due pontificati anche se il clima che si viveva negli anni ’80 non lo vedo poi così differente da quello attuale. Due elefanti in vetreria, il comunismo e il capitalismo, che si guardavano schivi tenendo chi da una parte chi dall’altra in scacco i Paesi che da loro in qualche modo dipendevano, "teste calde" al comando e popoli che si dividevano e si dividono in nome di questa o quella illusione. La Santa Sede può e deve avere una funzione decisiva in questi passaggi cruciali per il futuro di molte generazioni. Ma Francesco dovrebbe assolutamente riguardarsi di più. Il mondo e noi tutti abbiamo bisogno di lui».
La cultura ortodossa russa è una dei polmoni spirituali della cristianità. La sorprende il sostegno del Patriarcato di Mosca al Cremlino sull’invasione dell’Ucraina?
«Se per un certo verso può stupire che non ci sia stata, almeno così ci viene raccontato, una presa di distanza chiara e netta della Chiesa Ortodossa russa dalla politica di aggressione da parte di Vladimir Putin, dall’altra non la condannerei tout-court (per via delle vicendevoli ingerenze Stato-Chiesa) e nemmeno mi sorprendo più di tanto. La situazione interna all’ortodossia è molto più complessa e articolata di quanto immaginiamo noi occidentali. E anche a Oriente la "morte di Dio" ha creato un perimetro invaso da neointegralismi e neomisticismi di massa come un po’ ovunque nella religione dell’epoca postmoderna. Le relazioni tra Cremlino e Patriarcato, inoltre, sono incistate di antichi collateralismi che non sono mai stati superati».
Dal mondo diviso in due dalla cortina di ferro alla "terza guerra mondiale" a pezzi? La crisi Ucraina è un effetto della globalizzazione?
«Papa Francesco già parlava da lungo tempo di un conflitto planetario frazionato, "a rate". Fu una delle prime invettive che rivolse da pontefice a noi cosiddetto "mondo civile". Anche qui occorre tenere presenti quegli "elefanti in cristalleria" che sono il comunismo e il capitalismo. Oggi la vetreria a rischio è il terzo millennio multipolare, spezzettato, confuso. Ormai, quindi, non si può più analizzare il presente utilizzando i paradigmi ideologici del passato, così come è già obsoleto parlare di globalizzazione. Il mondo dopo la caduta del muro di Berlino doveva essere o apparire come il risultato della grande sconfitta delle divisioni, delle guerre di territorio, delle migrazioni per espropriazione. Non è accaduto nulla di ciò. Anzi non ci siamo resi conto che stava tornando un pensiero autarchico e regressivo. In realtà la globalizzazione si è rivelata fin da subito o quasi la bolla speculativa per antonomasia nella quale ci siamo lasciati incardinare e inglobare tutti o quasi con slancio e passione».
Da profondo ammiratore della civiltà e della letteratura russa, si aspettava un ritorno alla contrapposizione fra Occidente e Oriente?
«È vero che sono un ammiratore di quel tipo di civiltà che guardava, diciamo, un po’ più a est. Giampiero Cavaglià, mio compagno prematuramente scomparso, fu titolare della cattedra di Lingua e Letteratura Ungherese qui a Torino. Spesso le nostre discussioni, i nostri viaggi e l’incontrarci e scontrarci intellettualmente avevano a che fare con tutti questi discorsi su Occidente e Oriente. Oggi i muri sono ancora più alti, e spessi nonostante il tanto declamato restringimento del globo, perciò non vedo perché non aspettarsi nuovamente la contrapposizione fra Occidente e Oriente».
Quali considera oggi i grandi problemi dell’umanità?
«Basta leggere i giornali dell’ultimo periodo. Ennesima strage in America. Escalation di violenza nelle croniche faide africane. L’Unione europea incapace di incidere sullo scacchiere internazionale. L’ultradestra in Israele che fa insorgere le piazze. E in Francia, come da tradizione illuminista, sono tornati scontri e scioperi finché non cade la testa di qualche governante, per fortuna non più in senso letterale. Per non parlare di un ex presidente Usa e potenziale cavallo di ritorno alla guida dell’America come Trump che è finito alla sbarra per aver comprato, pare, con i soldi della campagna elettorale il silenzio di una pornostar. Non abbiamo ancora finito la lista delle urgenze e già mi chiedo se il grave problema dell’umanità non sia la prossima settimana».
Ritiene che la leadership in crescita della Cina sia un’urgenza geopolitica del terzo millennio?
«No, non sarei così pessimista sull’ascesa, peraltro quasi mai arrestata, della Cina. Il punto semmai sarà la gestione delle migrazioni su scala planetaria. Non solo quindi urge dare una risposta al quesito "dove li mettiamo? ", che angoscia tanti capi di governo ma a quello "perché ci spostiamo?". Dobbiamo affrontare seriamente un tema che è umanitario oltreché geopolitico. Il riscaldamento climatico crea deserti in regioni un tempo fertili quindi diminuisce le possibilità di ricerca del cibo. Intanto le multinazionali sfruttano il lavoro di milioni di disgraziati e le guerre, sotto sotto, hanno tutte una matrice economica».