Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 24 Lunedì calendario

Viaggio tra gli operai del nucleare

L’appuntamento è al parcheggio dell’Ikea, al mattino presto, quando l’ingresso del negozio è chiuso e il popolo dei mobili sta ancora dormendo. Stefano, 40 anni, ha scelto un bar a meno di un chilometro dalla fabbrica: «Facciamo colazione insieme e io ti racconto del diavolo con le corna». Scherza. Per lui non è così: «La fisica nucleare mi ha sempre appassionato. Il tempo di laurearmi e l’Ansaldo mi ha chiamato. Ricordo il colloquio con il capo del personale. Una scena quasi surreale. La crisi di Lehman Brothers stava tagliando i posti di lavoro a migliaia. Lui mi stava offrendo un posto a tempo indeterminato e aveva concluso il colloquio con un sorriso: "Mi auguro che lei accetti la nostra proposta". Ovviamente non me lo sono fatto dire due volte». Eccolo qui il diavolo con le corna: l’atomo e quella parola "nucleare" che in Italia, dopo il referendum dell’87, è una bestemmia. Stefano progetta centrali di quarta generazione, certamente più sicure di quelle di Chernobyl, Fukushima e Three Mile Island, gli incidenti simbolo, le tre corna del diavolo, che hanno terrorizzato il mondo. Stefano che cosa ti dicono gli amici del tuo mestiere? «Se ne parla poco. È un passo avanti sai? Per anni mi insultavano, mi davano dell’inquinatore». E adesso? «Beh, adesso pensano che forse con le centrali nucleari potremmo risparmiare sulla bolletta del gas».
A Genova quella dell’atomo è stata per molto tempo una delle industrie di punta della città. Fino a metà degli anni ’80 l’Ansaldo nucleare dava lavoro a 2.000 persone tra ingegneri, operai, progettisti. Ora sono 200 e lavorano per l’estero: «Produciamo solo sulla carta. Disegniamo le centrali che poi realizzano gli altri», spiega Stefano. E rivela: «Un giorno in Romania, ho potuto entrare in un impianto che avevamo progettato noi. Confesso, ero un po’ emozionato. Ma è stata l’unica volta. Normalmente possiamo guardare solo da lontano. Siamo come frati in un locale di lap dance».
Gli spaghetti con le alici e il pangrattato sono la specialità della Rustica, la trattoria più vicina all’ingresso dello stabilimento. Gabriele ha 29 anni, serve ai tavoli i piatti cucinati dalla madre e ha una gran voglia di rilanciare il locale: «Qui per molto tempo c’è stato il deserto, soprattutto a cena. Cerco di organizzare serate di karaoke per attirare i clienti». Alessio, delegato di Ansaldo Energia, spiega che il deserto non dipende tanto dal referendum sul nucleare ma dalle crisi più recenti: «Un mese fa abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché la Cassa depositi e prestiti ha ricapitalizzato la società con 580 milioni. Questo significa poter far fronte a nuove commesse e nuovo lavoro». E anche portare più clienti alla trattoria senza bisogno del karaoke serale.
Quanto lavoro porterebbe il ritorno dell’Italia al nucleare? Alessio riconosce che «quello del settore nucleare è inevitabilmente un lavoro a metà. Abbiamo ottimi ingegneri ma possono arrivare solo a un certo punto. Poi, naturalmente, comperiamo l’energia prodotta con il nucleare dai vicini francesi. Così è salva la forma ma è tradita la sostanza. Come spesso in Italia». Forse non si tornerebbe ai 2.000 addetti dei primi anni ’80 ma i 200 di oggi potrebbero moltiplicarsi per cinque, sei volte: «L’errore – dice Stefano – è immaginare di produrre energia da una sola fonte. Penso che il nucleare che stiamo progettando oggi sia molto più sicuro di quello di quarant’anni fa. Anche perché, in materia di sicurezza, dagli incidenti si impara. E molto. Accade in tutti i settori, a partire dall’aeronautica. E accade anche nel nucleare». Quante centrali servirebbero? «Penso che con 4 impianti si potrebbe coprire il 20 per cento del fabbisogno energetico italiano. E ci si potrebbe fermare lì. Il resto si continuerebbe a realizzare con altre fonti». Davanti all’ingresso della fabbrica Ramiz non crede alle rassicurazioni: «Ho 37 anni, sono albanese, faccio le pulizie nello stabilimento. Lo confesso: del nucleare ho paura. Se potessi allontanerei da noi la Francia, con le sue centrali che sono proprio oltre il confine».
Le nuove centrali nucleari saranno davvero sicure, come garantisce Stefano? «Lei lo sa qual è il principale problema di sicurezza che abbiamo avuto per decenni in questo posto?». Andrea, 57 anni, giacca e occhiali con la montatura gialla, fa una pausa e alza lo sguardo verso il cielo: il ponte San Giorgio, l’erede del Ponte Morandi, è proprio lì, sopra il cancello d’ingresso, a ricordare a tutti una delle più gravi tragedie della storia recente del Paese. «Per fortuna quando è venuto giù la fabbrica era deserta, era la vigilia di Ferragosto. Nello schianto i cavi e i pezzi di cemento hanno sfiorato le finestre della palazzina degli uffici». Cose che capitano quando le opere non sono fatte a regola d’arte o non hanno una manutenzione adeguata.
Dice nulla questa storia a chi lavora qui, nella fabbrica del nucleare? Alessio accetta la provocazione: «Dice che se non stai dentro i processi industriali, se li abbandoni per una scelta ideologica, perdi anche le conoscenze sulla sicurezza. I nostri ingegneri sono bravissimi ma negli altri paesi le centrali le hanno costruite, sanno come funzionano praticamente. Noi lavoriamo sulla teoria. Sul nucleare eravamo tra i migliori al mondo. Ora rischiamo di passare da industria 4.0 a 0.4».
Bisogna seguire il Polcevera fino alla foce per prendere la sopraelevata, costeggiare il porto dall’alto e raggiungere l’altra metà di Genova, sulla collina che sovrasta Marassi. Condomini della classe medio-alta, palazzi con vista sul mare e sullo stadio che sorge in fondo alla vallata con le sue travi bianche a sorreggere la copertura. È da una di queste strade strette che alle 8,15 del 7 maggio 2012 è sbucata la motoretta di Alfredo Cospito e Nicola Gay. Cospito ha estratto una Tokarev calibro 7.62 e ha sparato a Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, colpendolo alle gambe. Motivazione: «Abbiamo azzoppato Adinolfi, uno dei tanti stregoni dell’atomo». Prima di lui era toccato ad un altro dirigente dell’Ansaldo, gambizzato dalle Br il 17 novembre 1977 perché si occupava di energia atomica: Carlo Castellano. Sarà lo stesso Castellano a tirare il filo tra le azioni delle Br e quelle di Cospito: «Dopo l’attentato ad Adinolfi gli anarchici mandarono una lettera di minacce anche a me». È davvero tanto pericoloso occuparsi di energia nucleare a Genova? Roberto Adinolfi preferisce non rispondere: «Mi sono dato la regola di non parlare più di quel fatto. La ringrazio ma anche in questa occasione intendo mantenerla». E gli ingegneri di oggi? Quelli che studiano le centrali di quarta generazione sotto il ponte? Stefano non è spaventato: «Il clima è cambiato rispetto a dieci anni fa. Non penso che ci sia pericolo». Anche per Alessio non c’è da avere preoccupazioni. E l’attentato ad Adinolfi? «Ma diciamolo, quello, Cospito, era solo un matto».