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 2023  aprile 24 Lunedì calendario

La metamorfosi di Luigi Di Maio

Una metamorfosi infinita. O, per restare dalle parti della letteratura (là Kafka, qui Tomasi di Lampedusa), il gattopardo, con il lieto fine della prossima nomina a inviato speciale Ue per i Paesi del Golfo. Ancorché giovane (classe 1986), Luigi Di Maio rappresenta già un politico di lunghissimo corso, che ha consumato mille vite, e altrettante giravolte e piroette. Pur restando sempre – fino alla scissione consumatasi “sul far della sera” della XVIII legislatura – all’interno del Movimento 5 Stelle vi ha ricoperto tutti i ruoli in commedia e l’arco completo delle posizioni possibili e immaginabili – e, a dirla tutta, financo di quelle “inimmaginabili”. 
E dopo l’oblio a cui sembrava condannato a causa del naufragio di Insieme per il futuro, la formazione parlamentare con la quale aveva pensato, venendo tuttavia preso in contropiede e in controtempo da Giuseppe Conte, di scongiurare la caduta del governo Draghi innescata dal suo ex partito, questa è l’ora della rivincita. Costruita anche sulla scorta della fitta trama di contatti e relazioni internazionali che ha saputo stringere nel corso della sua esperienza alla Farnesina, e che viene da lontano. Per la precisione dall’attitudine ad abbracciare sempre di più, nel corso del tempo, un atteggiamento istituzionale e di compatibilità sistemica, sostanzialmente a partire da quel 2013 in cui è divenuto il più giovane – ci risiamo… – vicepresidente della Camera della storia nazionale. A conferma di come in lui scorra il sangue doc del «doroteo 2.0», dotato dell’autentico talento camaleontico (molto di più persino del suo antagonista «Camale-Conte») di indossare panni tra loro diversissimi (e in contraddizione). Ovvero, per rifarci nuovamente alla letteratura, di essere pirandellianamente «uno, nessuno e centomila». Come documenta la sua proteiforme carriera, che ha preso il volo con le elezioni politiche del 2013, giustappunto, con un crescendo inarrestabile fino al compiersi della caduta del governo Draghi. Nella dicotomia tra movimento di lotta e partito di governo tipica delle forze inizialmente extrasistemiche la sua naturale propensione, che si è palesata anche nell’outfit “giacca e cravatta” stridente rispetto al look descamisado e “rivoluzionario” del prototipico militante e dirigente grillino, è andato via via verso il secondo. A 360 gradi, giacché sarà ministro sia dell’esecutivo gialloverde che di quello giallorosso, nonché di quello tecnico e di larghe intese scaturito dall’autodissoluzione del Conte 2. Questo suo dna anomalo rispetto al grillismo antisistema non gli ha impedito di rilanciarne a più riprese le parole d’ordine dure e pure nei comizi e, specialmente, dagli schermi televisivi (che molto contribuiranno alla sua consacrazione come volto pubblico e celebrity), tanto da esserne stato appunto anche il «capo politico», ma ne ha supportato l’idea che il M5S dovesse perseguire con maggiore convinzione la strada tanto della partitizzazione che di una piena istituzionalizzazione. Come noto, farà il suo cammino molto più sulla prima che sulla seconda, ma tale percorso errabondo non ha comunque intralciato il destino individuale del «Dimma» che, mentre fuoriusciva dal cuore dei militanti della prima ora (e di Grillo), mostrava per contro indubbie facoltà di accreditamento presso svariati establishment e un’abilità manovriera significativa. Così, l’ex “bibitaro” dalle simpatie conservatrici si tramutava nel campione (minoritario, come si è visto) della transizione del Movimento in partito di sistema, europeista, responsabile – e perfino, come aveva affermato in alcune occasioni, “liberaldemocratico”. Un (troppo) “vasto programma”, e nel finale di partito se n’è infatti dovuto fare uno tutto suo in formato mignon. Anche in questo caso troppo (minuscolo), tanto da essersi rapidamente dissolto dopo la deludentissima prestazione elettorale. Non si è però trattato del suo personale finale di partita, dal momento che l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell ha fatto ricadere la sua scelta su di lui. E anche se il destracentro ripete a ogni piè sospinto che non era il candidato del governo, si tratta comunque di una buona novella per l’Italia e il sistema-Paese. E, altresì, di una cattiva notizia per l’esecutivo Meloni, perché evidenzia ancora una volta che a Bruxelles si decide a prescindere da certi suoi desiderata.