la Repubblica, 24 aprile 2023
Intervista a Alessandro Benvenuti Alessandro Benvenuti nel camerino del Teatro Dehon, due ore prima di salire sul palco, piega i 190 centimetri sfiorando il soffitto dei corridoi col ciuffo bianco. Ha un quaderno aperto davanti allo specchio, scrive continuamente. PUBBLICITÀ A 73 anni si emoziona ancora ad andare in scena? “Sì, ma più che l’emozionarsi è il trascendere. La battaglia col pubblico ti prosciuga, è più una trincea che una nuvola. Ma poi sul palcoscenico arriva lo stato di grazia ed entri in una dimensione spirituale: il teatro è un canto mistico, un rito laico sacro. Ed è terapeutico: alla fine sto meglio, anche fisicamente, nonostante la fatica. Ricordo che una volta in tournée avevo 39-40 di febbre: passai sei giorni a letto leggendo tutto John Fante. La sera andavo in scena e stavo benissimo, effetto Tachipirina. Poi mi tornava la febbre e mi rimettevo a letto”. PUBBLICITÀ La battaglia col pubblico, dice: qual è il peggiore? “Non esiste il pubblico peggiore come non esiste quello facile. Esiste al massimo il pubblico meno facile. Gli spettatori sono meravigliosi, sono santi che pagano il biglietto e salvano la vita a noi attori altrimenti disadattati o disoccupati. Poi c’è quello che si lascia andare al gioco e altri che oppongono resistenza e devi conquistare con una frase. Il pubblico peggiore, se vogliamo, è quello che accende il telefonino in platea: una totale mancanza di rispetto verso chi sta in scena, ma anche chi sta nella poltrona accanto, illuminato da questa falena” (agf) E si diverte ancora? “Molto, a fare le mie sfide, le mie ricerche di nuove forme di comicità. Mi diverto, anche se è una lotta. Ho smesso col cinema da regista perché non avevo più niente da dire. La qualità è sempre più rara, così come il bisogno di qualità. Pare si faccia di tutto per sfuggire alle grinfie dell’intelligenza e questo è disarmante per chi vorrebbe trovare un senso nella scrittura. Le parole sono importanti, e invece girano senza padrone. Se sono sbagliate, possono uccidere. Eppure c’è tanta faciloneria nel dire cose solo per fare effetto, senza riflettere, emettendo rumori più che contenuti. Questo tempo così poco incline all’ascolto dell’altro, mi turba. E talvolta scelgo lo sciopero del silenzio, anche a danno di chi mi sta intorno”. Tutto cominciò mezzo secolo fa coi Giancattivi: è stufo di raccontarla? “No. Athina Cenci era una funzionaria dell’Arci regionale e grazie a lei portammo per la prima volta la satira e il cabaret al popolo rosso delle feste de l’Unità, là dove prima c’era solo Brecht o il gioco del porcellino e del tappo. La satira non esisteva in Italia, non è vero che è nata a sinistra. C’era solo Dario Fo. Noi tre da operatori culturali abbiamo fatto un lavoro politico e sperimentale”. Francesco Nuti è su una carrozzella dal 2006, Athina Cenci è tornata da poco a parlare dopo un ictus che le ha tolto la parola per 15 anni. Che effetto le fa? “Profondo dispiacere. Athina qualche volta l’ho sentita, invece sono anni che non ho più contatti con Francesco. E’ una storia che si è compiuta con grande dolore”. Athina Cenci, il ritorno al cinema. "I fiori, i tartufi, la poesia: ogni giorno ricomincio daccapo" di Mattia Pasquini 03 Aprile 2022 Avevate rotto in modo piuttosto traumatico dopo il film “Ad ovest di Paperino” del 1981. “Con Francesco c’era già stato un riavvicinamento. Aveva prodotto il mio Benvenuti in casa Gori, sognavamo di fare Aspettando Godot insieme e resterà un sogno. Ma le cose non accadono per caso. Il modo di vivere modella il tuo dolore e il tuo pensiero”. Che intende dire? “La vita non si insegna a nessuno. Ci sono strade che uno imbocca più o meno coscientemente e gli altri non possono farci nulla. Il fisico dipende da come lo tratti. Si chiama destino, ma in qualche modo questo destino dipende da noi”. Cosa le resta? “L’affetto per quel pezzo di strada fatto assieme. Valori e ricordi antichi, pesanti, buoni e negativi. Sono quel che sono grazie a loro. Athina e Francesco sono state le persone più importanti nella mia carriera. Mi hanno consentito di mettermi alla prova come autore e regista, di studiare e di mettere in pratica. Athina è stata la mia prima musa, era l’uomo del trio. Francesco era senza briglie. Insieme eravamo impossibili”. Francesco Nuti, l’altra faccia dell’attore. Trovate sue poesie 29 Gennaio 2021 Una relazione buia e tempestosa: avete anche fatto a botte? “No, ma eravamo tre talebani, tre radicali. Eravamo sorretti solo dal nostro talento, senza nessun aiuto: anzi, ci misero un mese a convincerci ad andare in tv. La lavorazione del film fu soffertissima per motivi privati di Francesco. Io ero molto pignolo e questa carriera l’ho presa sul serio fin dall’inizio”. Nessun rimpianto? Rifarebbe tutto con loro così come l’ha fatto? “Parlano chiaramente i fatti e i nostri percorsi”. La satira di oggi le piace? “I politici sono così ridicoli che trovo t
Alessandro Benvenuti nel camerino del Teatro Dehon, due ore prima di salire sul palco, piega i 190 centimetri sfiorando il soffitto dei corridoi col ciuffo bianco. Ha un quaderno aperto davanti allo specchio, scrive continuamente.
A 73 anni si emoziona ancora ad andare in scena?
“Sì, ma più che l’emozionarsi è il trascendere. La battaglia col pubblico ti prosciuga, è più una trincea che una nuvola. Ma poi sul palcoscenico arriva lo stato di grazia ed entri in una dimensione spirituale: il teatro è un canto mistico, un rito laico sacro. Ed è terapeutico: alla fine sto meglio, anche fisicamente, nonostante la fatica. Ricordo che una volta in tournée avevo 39-40 di febbre: passai sei giorni a letto leggendo tutto John Fante. La sera andavo in scena e stavo benissimo, effetto Tachipirina. Poi mi tornava la febbre e mi rimettevo a letto”.
La battaglia col pubblico, dice: qual è il peggiore?
“Non esiste il pubblico peggiore come non esiste quello facile. Esiste al massimo il pubblico meno facile. Gli spettatori sono meravigliosi, sono santi che pagano il biglietto e salvano la vita a noi attori altrimenti disadattati o disoccupati. Poi c’è quello che si lascia andare al gioco e altri che oppongono resistenza e devi conquistare con una frase. Il pubblico peggiore, se vogliamo, è quello che accende il telefonino in platea: una totale mancanza di rispetto verso chi sta in scena, ma anche chi sta nella poltrona accanto, illuminato da questa falena”
E si diverte ancora?
“Molto, a fare le mie sfide, le mie ricerche di nuove forme di comicità. Mi diverto, anche se è una lotta. Ho smesso col cinema da regista perché non avevo più niente da dire. La qualità è sempre più rara, così come il bisogno di qualità. Pare si faccia di tutto per sfuggire alle grinfie dell’intelligenza e questo è disarmante per chi vorrebbe trovare un senso nella scrittura. Le parole sono importanti, e invece girano senza padrone. Se sono sbagliate, possono uccidere. Eppure c’è tanta faciloneria nel dire cose solo per fare effetto, senza riflettere, emettendo rumori più che contenuti. Questo tempo così poco incline all’ascolto dell’altro, mi turba. E talvolta scelgo lo sciopero del silenzio, anche a danno di chi mi sta intorno”.
Tutto cominciò mezzo secolo fa coi Giancattivi: è stufo di raccontarla?
“No. Athina Cenci era una funzionaria dell’Arci regionale e grazie a lei portammo per la prima volta la satira e il cabaret al popolo rosso delle feste de l’Unità, là dove prima c’era solo Brecht o il gioco del porcellino e del tappo. La satira non esisteva in Italia, non è vero che è nata a sinistra. C’era solo Dario Fo. Noi tre da operatori culturali abbiamo fatto un lavoro politico e sperimentale”.
Francesco Nuti è su una carrozzella dal 2006, Athina Cenci è tornata da poco a parlare dopo un ictus che le ha tolto la parola per 15 anni. Che effetto le fa?
“Profondo dispiacere. Athina qualche volta l’ho sentita, invece sono anni che non ho più contatti con Francesco. E’ una storia che si è compiuta con grande dolore”.
Avevate rotto in modo piuttosto traumatico dopo il film “Ad ovest di Paperino” del 1981.
“Con Francesco c’era già stato un riavvicinamento. Aveva prodotto il mio Benvenuti in casa Gori, sognavamo di fare Aspettando Godot insieme e resterà un sogno. Ma le cose non accadono per caso. Il modo di vivere modella il tuo dolore e il tuo pensiero”.
Che intende dire?
“La vita non si insegna a nessuno. Ci sono strade che uno imbocca più o meno coscientemente e gli altri non possono farci nulla. Il fisico dipende da come lo tratti. Si chiama destino, ma in qualche modo questo destino dipende da noi”.
Cosa le resta?
“L’affetto per quel pezzo di strada fatto assieme. Valori e ricordi antichi, pesanti, buoni e negativi. Sono quel che sono grazie a loro. Athina e Francesco sono state le persone più importanti nella mia carriera. Mi hanno consentito di mettermi alla prova come autore e regista, di studiare e di mettere in pratica. Athina è stata la mia prima musa, era l’uomo del trio. Francesco era senza briglie. Insieme eravamo impossibili”.
Una relazione buia e tempestosa: avete anche fatto a botte?
“No, ma eravamo tre talebani, tre radicali. Eravamo sorretti solo dal nostro talento, senza nessun aiuto: anzi, ci misero un mese a convincerci ad andare in tv. La lavorazione del film fu soffertissima per motivi privati di Francesco. Io ero molto pignolo e questa carriera l’ho presa sul serio fin dall’inizio”.
Nessun rimpianto? Rifarebbe tutto con loro così come l’ha fatto?
“Parlano chiaramente i fatti e i nostri percorsi”.
La satira di oggi le piace?
“I politici sono così ridicoli che trovo tempo perso anche il riderne sopra. Sono bravissimi i comici che lo fanno, per carità. Io non ne sarei capace, è un mio limite. Anche ai tempi dei Giancattivi noi non facevamo satira politica, era più una comicità surreale. Oggi mi interessa più la filosofia della satira, perché mi dà più spunti per rendere il linguaggio più moderno. Bisogna appozzare nell’antico per trovare la modernità: i moderni resistono secoli, gli attuali no”.
Cosa la fa ridere?
“I dettagli, anche in un film drammatico, o l’imprevisto. Le cose semplici. Non so indicarle un comico o un genere. Tutti e nessuno. Ce ne sono di bravissimi, ma mi fa più ridere la mia nipotina di otto mesi o mia moglie che ha una gestione della disperazione da schiantà dal ride’. Come direttore artistico di vari teatri, osservando scientificamente la comicità, posso dirle che non ho mai riso tanto in vita mia come con il Macbettu di Alessandro Serra e che Samusà di Virginia Raffaele è stupefacente e che Italo Pironetti con i suoi burattini alla Tim Burton mi fa tornare bambino. La comicità serve a risvegliare il bambino che è in noi, no?”
Lei sostiene che i comici sono i migliori attori drammatici.
“Il comico assorbe il dolore, lo mastica e lo risputa. La comicità la sana reazione a un dolore. Aiuta a sopportare i demoni e il peso della vita. Il comico mette a sedere sul cesso i potenti, i papi e le modelle, i tiranni e i grandi della terra”.
Non le stanno stretti i panni del comico?
“Li allargo. Come autore non mi manca nulla. Mia moglie dice che sono costretto a fare solo capolavori sennò non mi piglia nessuno, ma poi bisogna anche che se ne accorgano gli altri. Se pensano che io sia solo il bimbone anziano del Bar Lume, è anche colpa mia. Sono un asociale, un individualista nichilista e anche un po’ autistico. Non creo occasioni, non vado a cercare nessuno, ma mi faccio trovare. Per tanti, conoscendomi poco, è difficile immaginarmi in un ruolo da cattivo o drammatico, come fece Risi in Soldati. Pazienza. Poi recitare i personaggi classici non mi interessa, anche se ogni tanto fanno bene alla salute, a meno che non siano ripristinati come Arpagone o il Falstaff che sto per fare”.
Il suo pubblico li apprezza?
“Si rischia sempre di non piacere. La vera gioia è sorprendere chi ti viene a vedere. Creare una suggestione o una fascinazione. Essere affascinanti è più importante che essere bravi. Di bravi ce ne sono tanti. Non ho mai fatto nulla che funzionasse in automatico. Qualche volta mi sono spinto un po’ troppo in là. Per esempio, T.T.T.T. (Beckettio) del 1998, dopo aver fatto i Gori, fu uno shock per i toscani: per me era bellissimo, ma in Toscana mi hanno lanciato una fatwa e sono dovuto sparire per cinque anni”.
Il “Panico ma rosa” con cui è in tour, per esempio, nasce da un diario scritto durante il lockdown: sicuro che la gente voglia ancora sentirne parlare?
“Dopo sessanta repliche posso dire di sì, il pubblico viene sorpreso, stravolto, ribaltato ogni due minuti, è uno scoppiettio drammaturgico. Non parlo del lockdown, ma dalle riflessioni che ho fatto in quel periodo sulla mia vita, da quando facevo il chierichetto. E’ un flusso che cambia temperature e afflati, è una favola. Le memorie di quel periodo, che tutti ora vogliono rimuovere, vanno invece conservate come un patrimonio dell’umanità. Ho dieci nipoti dai 10 ai 35 anni che hanno addosso ancora ferite profonde di quei giorni. Sarebbe da stupidi voler dimenticare e cancellare un pezzo importantissimo della nostra storia, e non ancora finito”.