il Giornale, 24 aprile 2023
La nuova elite, aristocratica e radicale
La dicotomia popolo contro élite, tratto distintivo della stagione populista (e in parte anche sovranista), continua a tenere banco nel dibattito politico contemporaneo. Negli ultimi anni si è però modificata la composizione delle élite occidentali ed europee che, oltre ad essersi allontanate sempre più dalle esigenze del popolo, si sono radicalizzate. Si tratta di una tendenza indagata nell’ultimo numero della rivista inglese The Spectator che ha dedicato la copertina al tema «The new élite», ossia «L’ascesa dell’aristocrazia progressista» con un lungo saggio di Adrian Wooldridge. Wooldridge è autore del libro The Aristocracy of Talent. How Meritocracy Made the Modern World (2021) in cui ripercorre la storia della meritocrazia sostenendo questo concetto sia sempre più sotto attacco. Proprio dalla messa in discussione del concetto di meritocrazia negli anni ’60 e ’70, inizia a formarsi una nuova élite. Nel 1968 nasce alla San Francisco State University il primo dipartimento di studi neri mentre due anni dopo alla San Diego State University viene creato il primo dipartimento di studi sulle donne. Si inizia così a diffondere il principio per cui gli attivisti radicali si esprimono «a favore dei diritti collettivi (basati sul genere o sul colore della pelle) piuttosto che sulle pari opportunità per tutti basate sulle capacità». Secondo Alison Collins, ex commissario per l’istruzione a San Francisco, la meritocrazia è «razzista» ed è «l’antitesi dell’equità», da qui la visione radicale per cui «il modo migliore per promuovere i membri delle minoranze etniche, passa attraverso l’equità piuttosto che l’eccellenza». Secondo Wooldridge, negli ultimi tempi è avvenuto un passaggio ulteriore con un «assalto woke alla meritocrazia» e «ci stiamo muovendo verso una fase più ambiziosa della lunga rivoluzione sociale della sinistra: dal semplice smantellamento della meritocrazia alla creazione di un nuovo ordine sociale. Il concetto di meritocrazia viene così respinto e considerato «un’eredità del movimento eugenetico e dell’imperialismo». Per Ibram X. Kendi, autore di How to Be and Antiracist (2019) «l’unico rimedio alla discriminazione razzista è la discriminazione antirazzista», una teoria spiegata da Wooldridge: «l’idea è che alcuni gruppi, in virtù della loro storia di emarginazione e sfruttamento, siano più saggi e più morali di altri. La convinzione che il razzismo non sia limitato ad atti intenzionali di discriminazione, ma intessuto nel DNA della società, implica che i bianchi siano automaticamente colpevoli di nutrire pensieri razzisti e di vedere il mondo attraverso occhi razzisti». Ciò genera la creazione di una nuova gerarchia sociale in cui a più gruppi oppressi o minoranze appartieni, più virtù morali possiedi e, al contrario, più caratteristiche privilegiate hai, più sei in basso nella scala morale. Le università americane rappresentano l’emblema di questa tendenza, non a caso criteri di valutazione oggettivi come i test e i voti sono sempre di più sostituiti da criteri soggettivi in cui la diversità è un valore centrale. A Yale, per esempio, negli ultimi anni c’è stato un proliferare di uffici e figure dedicate alla diversità, dal «chief diversity officer» al «deputy chief diversity officer». La cultura woke è a tal punto pervasiva che gli studenti che presentano progetti con temi ad essa affini, hanno molte più possibilità di ottenere i finanziamenti per le loro ricerche. Ciò non vale solo per i singoli studenti ma anche per gli atenei, in Gran Bretagna è attivo il sistema «Athena Swan» che monitora il rispetto dei criteri di diversità e inclusione anche nel numero di dipendenti e, nel caso non siano rispettati, le università non possono ricevere i fondi di ricerca. Ovviamente anche i programmi e le materie di insegnamento sono plasmati per rispettare il criterio della DEI: diversità, equità e inclusione. Come spiega Wooldridge: «Questa non è semplicemente una lotta tra l’élite istruita e la gente normale per il controllo della cultura. È una lotta all’interno della classe istruita, con una nuova classe di burocrati woke che prendono il potere dai tradizionali esponenti della società professionale». Così, per le classi dirigenti, avviene la sostituzione del criterio di merito con quello di appartenenza alla cultura woke con la conseguenza di ridurre l’efficienza economica poiché «le società e le istituzioni meritocratiche sono molto più produttive di quelle non meritocratiche». In secondo luogo, si verifica una «politicizzazione della distribuzione delle opportunità e dei posti di lavoro privilegiando alcuni gruppi rispetto ad altri su base etnica». Il risultato, conclude Wooldridge, è che la nuova élite woke, se continua a rafforzarsi, «è destinata a governare una società sempre più divisa. Forse dovremmo riflettere un po’ di più sulla sostituzione dell’aristocrazia del talento con l’aristocrazia woke». Le minoranze ideologizzate vogliono cambiare la nostra società e per farlo è necessaria una nuova élite in grado di indirizzare e modificare le usanze, l’identità e gli stili di vita dei popoli, ecco il vero obiettivo della cultura woke.