il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2023
Il Covid ha fatto male anche al vocabolario
Il prezzo del Covid. Ci ho molto pensato negli scorsi giorni. E non per le tracce di dolore e lutto che l’epidemia ha seminato sul nostro cammino. Quelle ce le teniamo dentro, e sarà bene che non cediamo alla voglia di rimuoverle. Ci ho pensato invece per tanti piccoli dettagli che sono emersi dentro o intorno al 21 marzo. Riscoprire le manifestazioni di massa, per esempio. Era dal 2020 che Libera sognava di potere ritrovarsi “senza limiti e confini” in quella data, tutti insieme in una stessa città. Fino allo scorso anno a Napoli, quando anche il numero dei posti in piazza fu fissato per tabella e poi gli studenti della provincia ruppero gli argini affluendo a migliaia ben oltre il numero stabilito (seimila, se ben ricordo). Ho riscoperto che la gioia di una manifestazione nutrita di sentimenti forti e “giusti” sprigiona una energia senza pari. Camminando, tenendo tra le dita uno striscione, stringendo mani tra i sorrisi, intonando le stesse note, ci si rigenera. Altro che il lutto dell’antimafia. È domanda di vita.
Così, sentendola tornare, ho capito fino in fondo il prezzo pagato. Ciò che ho perso in tre anni che per quelli della mia età contano di più, poiché, come direbbero gli economisti, hanno un’utilità marginale crescente. Tuffarsi nella moltitudine, e dentro di lei ripescare d’incanto storie lontane, reincontrare volti conosciuti ma ai quali, con somma goffaggine, non si riesce a dare un nome pur amandoli, è esperienza quasi inebriante. E tuttavia ancora in lotta con il Covid, perché le tante mascherine spiegano che la paura di stare dentro la folla non è finita, e che anzi probabilmente – insieme alla desuetudine – ha tenuto a casa migliaia e migliaia di persone.
Porta la mascherina anche il nonno del movimento, papà Agostino, senza più la sua Augusta accanto. Spiega che è appunto il bisogno di usarla che gli ha fatto dimezzare la candida barba, che aveva promesso di non tagliarsi finché non avesse avuto giustizia. Sembra schermirsi, indugiare ad ammetterlo. Ma potrebbe averla tagliata in parte proprio perché finalmente la giustizia ha fatto passi avanti, colpendo il clan dei Madonia. Glielo suggeriamo lì per lì con tono complice, facendogli dardeggiare gli occhi vichinghi. Ma è difficile riabituarsi, tre anni dopo, non un mese, alle forme di socialità di sempre. Si scattano foto maniacalmente, quasi si avesse voglia di documentare il più possibile che la vita è tornata. E l’antimafia pure. Godersi tutto, come turisti cinesi a Firenze o Venezia. Si propongono e si chiedono selfie più di prima, non si sa mai che poi passi troppo tempo prima di rivedersi. Si avverte però in tutto questo una cosa apparentemente misteriosa. Torna cioè continuamente, nei seminari come nel discorrere comune di questo 21 marzo, una parola: “resilienza”. Come fosse una grande parola di lotta. Solo che vuol dire capacità di assorbire un urto senza rompersi, descrivendo cioè una condizione passiva.
E invece viene usata come se volesse dire resistenza, che è movimento attivo, di rivoluzione. È il nuovo omaggio incolto alle mode del Covid. Le parole vanno e tracimano, specie se ci sono di mezzo tra anni senza una società riflessiva e strutturata. Tre anni di libero dire. Ti accorgi così che nelle società vitali c’è un regolatore invisibile, sorta di “mano invisibile” di Adam Smith, che riaggiusta il nostro parlare. Mentre in quelle stanche, condite di parole mediche o anglicizzanti, perfino “resistenza”, questa parola così cara ai combattenti, e da cui in fondo è nata la nostra Repubblica, perde senso e subisce un effetto di sostituzione. Una delle parole chiave della nostra epica, e della storia dei conflitti, svapora e si scolora dentro una parola ritenuta più colta e raffinata. Resilienza, che forse un giorno scriveremo con la “r” maiuscola. Ora e sempre Resilienza. Ahimé.