il Giornale, 24 aprile 2023
Ritratto di Gianni Riotta
Luigi Mascheroni
A un certo punto, metà anni ’90, alla Stampa inizia a girare voce di un cambio di direzione: via Ezio Mauro, arriverebbe Gianni Riotta. Una mattina nata male – uno sfondone sul giornale in edicola, alla riunione di redazione Mauro si lancia in un’intemerata contro vicedirettori e capiredattori. «Ma non vi vergognate a fare uscire pagine così?!» chiede schifato. «Vi meritate Riotta...».
Gianni Rotta ce lo siamo meritato. Volevamo un giornalismo all’americana, indipendente, obiettivo, al servizio del lettore? Abbiamo avuto il peggior giornalismo naturalizzato americano, più liberal che libero, obamiano già prima di Obama, White House e camicia bianca, maniche rimboccate e lingua srotolata, cravatta kennediana, occhiale Manhattan e la sacra regola dell’informazione anglosassone: Who, What, Where, When, Why... Wi-fi, Weekend, Wa-Wanagà, Web e «Wuè, come stai?».
Sicilianissimo di origini e Amerikano con la K, da Palermo, quartiere Zone Nuove, a Nova Jorca – i fratelli Catalano, il tabacchino Tantillo, il carnezziere Sampino -, Johnny stelle-e-strisce Riotta, conosce le cose ’miricane così all’italiana che quando Kerry e Bush si contendono la Casa Bianca lui anticipa in tv il successo democrat, mai arrivato, e all’ultimo dibattito fra Trump e la Clinton scrive: «Hillary vincerà, Trump è stata una grande distrazione». Si pronuncia Paliemmu, si scrive Lamerica.
Figlio d’arte, il padre Totò era una firma del Giornale di Sicilia, e fratellastro della nobile schiatta dei giornalisti siciliani di penna e di talento Paolo Valentino, Merlo, Buttafuoco, Sebastiano Messina, Sorgi, Mughini... Gianni Riottino già da picciotteddo, sognando Tom Wolfe, lino bianco e granita al caffè, è collaboratore della terza pagina del Giornale di Sicilia e corrispondente del manifesto dal Bar del Viale. Poi, la redazione romana. Ricorderà Rina Gagliardi, che fu direttrice del quotidiano comunista: «Appare questo bel figurino, tutto impettito. Capii subito che il ragazzo puntava in alto, che avrebbe fatto strada».
La mala strata nun finisci mai. E neppure la buona. Gianni Riotta passa dalla Scuola di giornalismo della Columbia University e poi diventa corrispondente dall’America per l’Espresso, inviato, condirettore di Sorgi alla Stampa della Fiat, subito dopo vicedirettore di Mieli al Corriere, quindi direttore del Tg1 e infine del Sole24Ore... Dal manifesto a Confindustria, via Furio Colombo, senza neanche stropicciarsi la camicia. Quando si dice nascere con...
Per imbroccare una parabola del genere bisogna essere bravi, di sinistra, convinti della missione civilizzatrice dell’Amerika, e soprattutto siciliani. E iddu lo è.
Siciliano, spigoloso, sospettoso, garbato, con un narcisismo patologico sopra la media già alta dei giornalisti, telefonista compulsivo e inarrivabile camminatore di corridoi, Riotta è la più perfetta rappresentazione in formato tabloid del principio secondo cui nel giornalismo le promozioni sono inversamente proporzionali ai successi. Più sfasci una testata, prima te ne danno un’altra.
Cronista di grande estro, ottimo narratore e ancora migliore sceneggiatore, dove non arriva l’occhio arriva l’immaginazione (i reportage da Ground Zero e dintorni sono wonderful, niente da dire: «Good job, Johnny»), Riotta non è mai stato un grande direttore-conduttore. Le sue trasmissioni tv (su Rai3, strano...) non si ricordano. Il suo potere come spalla di Sorgi e Mieli era zero. E la direzione del Tg1 (nomina avvenuta col governo Prodi, quando a dare retta ai maligni faceva fare le inquadrature storte per riempire i comizi del premier) è passata alle cronache per qualche mezza fake news. E poi, via Emma Marcegaglia, l’amatissima Emma, la presidente di Conf-collant Emma Marcegaglia, il Sole24Ore. Che s’illude di trasformare nel Wall Street Journal e che dopo due anni lascia con 54mila copie in meno in edicola e una riduzione degli abbonamenti del 30%: il più grave crollo delle vendite nella storia del quotidiano. Da cui Gianni Bancariotta.
Aneddotica del giornalismo. Ai tempi, anni Duemila, un appuntamento elegante erano i pranzi milanesi a casa di Fiorella Minervino, una bella Signora della Brera bene, non sappiamo se migliore per la sua ospitalità o per i suoi pezzi, dove si radunava la crème della stampa d’establishment e di pettegolezzo. Mieli, Feltri, Sorgi, Gianluigi Gabetti... Riotta rifiutava sempre, ma con raro senso dell’opportunità accettò proprio nei giorni in cui si parlava della sua imminente cacciata dal pomposo Headquarters di cristallo di Renzo Piano. A un certo punto Feltri, con la sua nota perfidia, gli chiede: «Ma cos’è questa storia, Gianni... ma è mica vero che ti mandano via dal Sole?». «Ma no – risponde Riotta ieri sono stato con Emma sul suo aereo privato, siamo andati a Pescara per un evento... Anzi, abbiamo parlato dei nuovi progetti. Era felice». Il giorno dopo Riotta fu chiamato dall’amministratore delegato del Sole. «Direttore, firma Lei la lettera di dimissioni o firmiamo noi quella di licenziamento?».
Dismesso da Sole, Riotta sbarca alla Luiss Guido Carli di Roma l’ateneo privato di Confindustria: stessa famiglia – e nel 2018 diventa direttore della Scuola di giornalismo. Dove, col senso del pluralismo che gli è proprio, chiama come condirettore Alberto Flores d’Arcais, firma di Repubblica, e come visiting professors Ernesto Assante, caporedattore di Repubblica; Carlo Bonini e Francesco Bei, vicedirettori di Repubblica; Mario Calabresi, già direttore di Repubblica; Roberto Saviano, editorialista di Repubblica; Francesco Franchi, art director di Repubblica; Federica Angeli, cronista di Repubblica; e Maurizio Molinari, il direttore di Repubblica.
Maestrino di giornalismo (famosa la sua rassegna stampa su Radio3 quando metteva i voti ai colleghi come se fosse a scuola; famigerata invece la lista dei putiniani d’Italia dove infilò nomi a caso, guadagnandosi la risposta gnoseologica di Massimo Cacciari «Riotta è un coglione») e con scarso senso dell’umorismo (quando sul Foglio prese piede un colonnino pietrangiolesco sulle disavventure di Johnny Riotto, fece le fotocopie di tutta la rubrica e le portò a Paolo Fresco, potentissimo presidente Fiat, paventando un complotto contro di lui orchestrato da qualcuno dentro la Stampa, e l’Avvocato Agnelli si fece una risata), Gianni Riotta ora scrive per Repubblica – può capitare... – e spinto dal suo turbo-atlantismo è diventato il pensatore di riferimento di Guido Crosetto, che lo ha messo nel Comitato per la valorizzazione della cultura della Difesa. Solo i siciliani sanno essere così amici dei propri nemici.
Trinacria, due figli, una moglie che è il vero caporedattore della famiglia (Marila, scienziata tosta e sicula), 69 anni, cinque romanzi (il vero giornalismo in fondo è letteratura), internauta e interista, Gianni è il perfetto bravo ragazzo. «Johnny Ricotta», cannoli e la volta che mise in apertura di un giornale finanziario un’apologia del film Baarìa.
Gianni&Riotto, «Quel gran fijo de ’na Riotta», cambiare idea a riotta di collo, Dirotta su Cuba, ma soprattutto la Riotta di Caporetto. Pirandellianamente – altro siciliano – Uno, nessuno e Gianni Riotta.
E non diremo, ma solo perché non sappiamo l’inglese, cosa intendesse il premio Pulitzer Glenn Greenwald quando, nel 2013, in merito ai servizi di Riotta sulle rivelazioni di Edward Snowden, lo definì the opposite of journalism.
Forse che Riotta fa un vero giornalismo di opposizione.