MowMag, 17 aprile 2023
I giornalisti non rompono più i coglioni. Riflessioni su mestiere (quasi) morto
Corso Roma numero 5, pieno centro di Montecatini. Quando ci passo davanti è deprimente. Da ragazzo ci arrivavo quasi sempre col fiatone pensando già all’attacco del pezzo che avrei dovuto scrivere. Sul citofono c’era scritto Il Tirreno. Sulle scale di quel portone mi mettevo a sedere e insieme a Matteo Perniconi, un altro collaboratore, commentavamo i passanti e che ve lo dico a fare soprattutto le fiche, spesso al loro passaggio emettevamo pure dei suoni gutturali vagamente primitivi – ooooh aaah ngaaaa – roba che oggi finiremmo processati con l’accusa di molestie per direttissima. Al primo piano invece c’era la redazione: un corridoio, un bagno e tre stanze, nella più grande era permesso pure fumare, perché era la stanza del Gaspero, il caposervizio, e di De Gregorio, tipi da bestemmia, Marlboro e Lucky Strike. Di là invece c’era il Brancoli. Giornalisti veri, come quelli che vedevo nei film. Eravamo in una piccola provincia ma ogni giorno ci sentivamo in guerra. De Gregorio litigava con tutti: polizia, magistrati, carabinieri, politici. Il Gaspero parava i colpi. Il Brancoli era l’esteta della scrittura. Una volta mi affidò una inchiesta sui night club della zona, gli feci presente che non avevo gli abiti per entrare in un posto del genere. Mi disse una cosa che mi ha segnato come uno spirito guida: te ne devi fottere, tu sei un giornalista e ti vesti come cazzo ti pare. Che poi l’ho compresa in un senso più esteso: tu sei un giornalista e non devi guardare in faccia a nessuno. Loro mi hanno insegnato a non abbassare la testa mai. A essere libero. A imprecare sulle parole. A schifare la retorica. Ad arrivare prima degli altri sulle notizie. A continuare a indagare anche quando tutti ti dicono che non c’è niente da scoprire. Mi hanno insegnato chi leggere. Cosa leggere. Come leggerlo. A quei tre devo tutto. A quella redazione, quel palazzo, quelle scale, quel citofono devo tutto. E ora che ci passo davanti mi viene male: il citofono è arrugginito, il palazzo pare in abbandono. Penso al Gaspero, in pensione. Al De Gregorio, fatto fuori dopo l’ultima litigata, al Brancoli, direttore dell’ennesimo quotidiano ormai in vendita del gruppo La Repubblica. Sono l’inizio e la fine di questa storia, di un giornalismo che non c’è quasi più.
Io faccio questo mestiere ogni santo giorno, ogni ora. Sono un fottuto giornalista. Non saprei come altro definirmi. Lo faccio online, sui social, studio gli analytics, faccio anche io le marchette per gli investitori, scendo anche io a compromessi, conosco perfettamente le regole del gioco. Quindi non venitemi a dire che sto invecchiando o che sono un solone che non si sa adeguare ai tempi che cambiano. Ma conservo l’entusiasmo e la motivazione della prima ora, amo il mestiere, mi sporco le mani e proprio per questo so che oramai quasi tutto quello che ci circonda e che chiamiamo giornalismo, giornalismo non è. Il giornalismo in Italia è morto. Morto. Quella cosa lì che vedete non è altro che una diversa forma di intrattenimento. Le interviste? Tutte concordate. Si fanno soprattutto per intrattenere, non per trovare la notizia. Quando fai le interviste dovresti far dire al tuo intervistatore ciò che non vorrebbe svelare, ciò che non ha mai detto. Non è più così. Perché dopo, con l’intervistato, ci vai a cena, ti scambi il numero di telefono, ci fai un selfie e speri che ti menzioni su instagram e che ti segua e ti porti follower. Le inchieste? Sempre meno. Dobbiamo inseguire i trend, poco importa che ci sia del fango dietro a una storia. Finito il trend, meglio andare su un altro tema. Quasi tutti quelli che seguite e che vi parlano di notizie o affini non sono giornalisti, cari miei, ma influencer o tiktoker del giornalismo. Muy diverso. Le idee da difendere? Quasi mai sincere. Sono più importanti i personaggi da portare avanti, altrimenti è difficile essere invitato nei talk. La critica? Praticamente è diffamazione. Anche se la differenza tra le due cose è netta e per fortuna tutelata dal nostro codice penale molti ci provano a equipararla. Ora dirigo MOW e siamo tra i pochissimi a esercitare il diritto di critica fregandoci degli amici e degli amichetti. Ma ogni giorno devo rispondere a lettere di diffide, telefonate, mail, in certi casi minacce. Mi ha fatto molto ridere il pr di una comica pressoché sconosciuta che dopo aver letto il nostro pezzo in cui dicevamo che la sua assistita non faceva ridere mi ha chiamato e si è presentato come ufficio stampa di Alessandro Gassman e altri attori molto più famosi, tutti elencati con l’unico scopo di farmi capire contro chi cazzo mi stavo mettendo, per poi provare a intimidirmi con la classica frase: “Se non eliminate l’articolo entro sera partono i nostri legali”. E ha riattaccato. Io prima ho immaginato un team di legali alla stazione Termini fermi ad aspettare il via per salire sul treno e venirmi a menare, poi mi sono messo a ridere.
Mi sono messo a ridere perché vengo dalla scuola del Tirreno di Montecatini, dove ho conosciuto gente che si sentiva in missione e considerava il giornalismo qualcosa di sacro. Ora faccio riunioni in cui gli agenti degli influencer mi chiedono 3k per 20 minuti di intervista o 15k per 3 giorni di lavoro. Vorrei rispondere che preferirei spenderli per finanziare direttamente il narcotraffico (tanto se accettassi di darglieli finirebbero comunque lì nella maggior parte dei casi). Mi limito a dire che lo trovo immorale, che è una cosa già molto grave, ma i miei interlocutori di solito non lo capiscono, perché oramai il concetto di avere una morale è un po’ desueto. E sapete qual è la cosa peggiore? Che il giornalismo è stato affossato dagli stessi che dovevano farlo crescere. Dai gruppi editoriali che sottopagano i collaboratori e si passano gli stessi direttori da 30 anni, da un giornale all’altro. Da chi fa quotidiani illeggibili, che vendono 20 mila copie al giorno, e periodici vuoti di contenuti, pieni (se va bene) solo di pagine pubblicitarie. Dagli investitori che invece di sostenere l’indipendenza si muovono solo per amicizie, alla ricerca di un fantomatico posizionamento. Il risultato è che quando apri un giornale quasi sempre ti viene l’onco, quella noia mista allo scoglionamento e alla delusione.
Per fortuna, però, c’è chi ancora si salva, lotta, cerca, scrive, verifica e pubblica. Chi ancora fa questo mestiere con vocazione, che non ha paura di risultare scomodo, senza padroni. Come trovarlo? Un buon punto di partenza è rispondersi alla domanda: ma lui, quali notizie ha trovato? Se le notizie le commenta e non le trova è un opinionista. Anche questo è muy diverso. E poi un bravo giornalista ti deve stare un bel po’ sul cazzo, proprio perché sfugge al controllo, perché ha delle idee distanti dalle tue, perché continua imperterrito a rompere i coglioni. In fondo, questo è il suo ruolo: non quello di farsi i selfie con gli attori o i cantanti, non andare in giro e fare cose e vedere gente, non presenziare in tv. Ma continuare ogni sacrosanto giorno a rompere i coglioni. Questo fa un bravo giornalista. Ancora oggi. E di gente che rompe i coglioni ce n’è sempre meno.