Domenicale, 23 aprile 2023
Quasi ventimila partigiani subirono processi
Il cinema, la letteratura, la memorialistica e la stessa storiografia ci hanno spesso tramandato un’immagine oleografica del nostro secondo Dopoguerra. Un «Paese nuovo», in procinto di varare una Costituzione figlia della folla che a fine aprile ’45 aveva portato in trionfo i partigiani vincitori. Paradossalmente, quest’iconografia è stata avallata anche dagli sconfitti della guerra civile, i quali hanno coltivato un sentimento di autoesclusione, da «esuli in patria».
La ricerca di Michela Ponzani, che si spinge sin quasi ai giorni nostri, ci restituisce invece un quadro più mosso, in cui la celebrazione unitaria del 25 aprile non riesce a sopire i radicati umori anti-resistenziali. In quest’Italia carsica e maggioritaria confluiscono i nostalgici del duce, ma anche quanti nel 1943-45 erano rimasti alla finestra (la cosiddetta «zona grigia») e i «moderati» che, con l’avvento della Guerra Fredda, avevano presto dimenticato il paradigma antifascista in favore di quello anticomunista. L’Italia dell’anti-Resistenza ha avuto i suoi cantori (Leo Longanesi, Indro Montanelli, Giovanni Ansaldo), i suoi giornali («il Borghese», i rotocalchi popolari), i suoi storici (Giorgio Pisanò), i suoi uomini politici (Giorgio Almirante e Giulio Andreotti, che nel 1953 «abbracciò» il maresciallo Graziani), e anche i suoi magistrati.
Il merito principale dell’autrice è quello di aver documentato, sulla base di fonti primarie poco esplorate, l’ondata di processi che dal 1948 sino alle soglie degli anni 60 portò alla sbarra fra i 15mila e i 20mila partigiani. Un’offensiva che giudicò «la fucilazione di fascisti e collaborazionisti come omicidio premeditato, la requisizione di beni e viveri come rapina a mano armata o furto, gli atti di sabotaggio alle postazioni nemiche come episodi di strage». Certo, i reati comuni commessi dai resistenti e le vendette sommarie post 25 aprile non erano stati soltanto un’invenzione della propaganda neofascista. Però è indubbio che vi fu un accanimento giudiziario contro gli ex partigiani, «banditi» cui venne spesso negata la qualifica di legittimi belligeranti. Tutto questo mentre amnistie e sentenze indulgenti liberavano fior di criminali fascisti. Un capovolgimento dei torti e delle ragioni che rispecchia lo Zeitgeist e rimanda al tema più generale della «continuità dello Stato» e dell’epurazione mancata.
Oggi molti assunti della vulgata anti-resistenziale sono ormai divenuti senso comune. Si pensi all’annosa polemica su via Rasella, un attentato controverso all’interno della stessa Resistenza, nella cui narrazione prevalgono tuttora autentiche fake news (ad esempio, quella sui manifesti che avrebbero chiesto ai Gap di costituirsi per salvare la vita degli ostaggi).
Unico appunto: il tono talvolta sin troppo indignato dell’autrice, il cui libro è ospitato in un’austera collana di studi storici.