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 2023  aprile 23 Domenica calendario

L’euforia dei partigiani


È soprattutto all’allegria di allora che bisogna pensare quando si ricorda il 25 aprile 1945 – «spavalda allegria» l’avrebbe chiamata Italo Calvino qualche anno più tardi. L’inverno era stato durissimo, specialmente per i partigiani, che, nelle parole di Beppe Fenoglio, in quei gelidi mesi interminabili erano «caduti» a uno a uno, come tanti «passeri» dagli alberi. In molti non ce l’avevano fatta, pure perché tedeschi e repubblichini si erano accaniti con particolare ferocia su prigionieri e popolazione civile, nella imminenza di una disfatta che sapevano ormai inevitabile. Torture. Stupri. Eccidi. Finché era arrivato il giorno dell’insurrezione armata e il quasi istantaneo dissolversi di ciò che rimaneva della repubblica fantoccio messa in piedi da Benito Mussolini nel settembre del ’43.
Quel 25 aprile Genova si arrese subito. In qualche altra città si continuò invece a combattere per diversi giorni, come a Milano (fino al 28) e a Torino (addirittura fino al 29). Gli ultimi morti, come sempre, furono i più dolorosi da accettare per i compagni, che spesso, con un sacrificio inutile, li videro cadere sotto i colpi dei cecchini fascisti asserragliati in cima ai tetti. Non appena la resa fu completa l’euforia si impadronì però dei combattenti e della popolazione civile, senza distinzioni di sorta – anche nelle forme più violente, come lo scempio brutale dei cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci a Piazzale Loreto. Era finita! Finita per davvero. E gli italiani non avevano atteso la spallata definitiva degli Alleati. Avevano riconquistato la libertà da soli.
Una lettera a Carlo Dionisotti del partigiano azionista Giorgio Agosti (compagno di liceo di Norberto Bobbio e Leone Ginzburg) a proposito degli eventi di Torino restituisce bene il clima del momento: «I giorni più belli sono stati quelli dell’insurrezione, che è stata silenziosa, disciplinata, fermissima. Il Cln l’ha scatenata contro la volontà degli alleati e per 36 ore la città è stata tenuta solo dalle formazioni cittadine, malissimo armate, ma animate da uno spirito e da un’organizzazione incredibili. (…) Gente in tutte le fogge e tutte le divise, con le armi più strane, con barbe inverosimili: e i nostri cannoncini sgangherati, i nostri carri armati ricoperti delle scritte più bislacche. (…) E la sensazione che non è stato inutile, la convinzione – letta negli occhi degli impassibili ufficiali alleati – che quello era un vero esercito».
L’orgoglio, l’orgoglio del riscatto: fu questo allora uno dei sentimenti dominanti. Oggi, però, è essenziale ricordare l’entusiasmo di quel 25 aprile pure perché l’atmosfera sarebbe presto cambiata, e con essa il giudizio di ampi settori dell’opinione pubblica. Da un giorno all’altro le contrapposizioni della Guerra fredda ricollocarono infatti l’Italia dall’antifascismo della sua carta costituzionale all’anticomunismo della sfida tra Usa e Urss. Nel nuovo quadro, la stampa moderata cominciò a rappresentare i partigiani (in maggioranza legati ai partiti della sinistra marxista) come dei poco di buono, nello stesso momento in cui l’amnistia concessa a quanti avevano preso le armi veniva adoperata con spregiudicatezza per assolvere persino i fascisti che si erano macchiati dei crimini più orrendi. Spesso, anzi, si giunse a un paradossale ribaltamento dei torti e delle colpe. Come racconta Michela Ponzani, nel suo documentatissimo Processo alla Resistenza (si veda la recensione qui accanto), tra il 1948 e il 1959 furono tra quindici e ventimila i partigiani che dovettero affrontare la giustizia civile per atti compiuti mentre rischiavano la propria vita per ridare al Paese la libertà perduta. La denigrazione della Resistenza ha toccato negli ultimi trent’anni livelli mai visti prima, ma sarebbe un errore credere che si tratti di una novità assoluta – se non fosse che i nostalgici del ventennio mussoliniano manifestano adesso i loro sentimenti anche dalle più alte cariche istituzionali. Nel discorso pubblico le parole di aperta di irrisione verso gli oppositori di Mussolini ripetutamente pronunciate da Silvio Berlusconi hanno senza dubbio segnato uno spartiacque, ma soprattutto perché – per circa trent’anni, a partire almeno dal 1965 – attorno alla Liberazione si era finalmente consolidato un consenso generalizzato, che univa i partiti di governo e di opposizione, con la sola esclusione del neofascista Movimento Sociale. Una festa di tutti i cittadini che credono nei principi della democrazia e della libertà: come è giusto che sia.
Oltre ai valori di quella lotta, è opportuno però che non si dimentichi l’esultanza di quei giorni tra quanti si erano battuti per restituire all’Italia dignità tra le nazioni civili. La fine del conflitto fu comprensibilmente accompagnata da un’ondata di allegria in tutto il mondo, come si vede bene da questo passo della (magnifica) autobiografia del critico americano Anatole Broyard: «Millenovecentoquarantasei era un buon momento – forse il migliore – nel XX secolo. La guerra era finita, la Grande Depressione era alle nostre spalle, e ognuno stava riscoprendo i piaceri semplici. Una guerra è come una malattia, e quando finisce pensi che non ti sei mai sentito altrettanto bene. Avevi l’impressione di tornare a casa, di riprendere possesso della tua vita». Al netto delle privazioni materiali, in Italia avvenne esattamente lo stesso: ma con in più, per chi aveva sparato o assistito in mille altri modi la lotta partigiana, la percezione inebriante di aver fatto la cosa giusta (quando altri avevano scelto invece la fedeltà all’alleato germanico), e che un futuro migliore attendesse tutti, vincitori e vinti, appena dietro l’angolo.
Anche in quel fervore e in quell’ottimismo c’è una lezione da tenere viva oggi. Ricordiamoli dunque anzitutto gioiosi e spensierati quei nostri insostituibili eroi della libertà: come furono in quei giorni di settantotto anni fa. Se lo meritano. Ed è pure per questo che, di tutte le ricorrenze del nostro calendario civile, nessuna quanto il 25 aprile chiede di essere celebrata con una grande Festa popolare.