Domenicale, 23 aprile 2023
L’europa costruita con le crisi
Sì, quando diceva che l’Europa si farà attraverso le crisi, Jean Monnet aveva ragione. Ma attenti, non sino al punto di suggerire che la crisi porti di per sé a fare passi avanti. Ci riesce, se c’è una leadership capace di cogliere l’occasione, di progettare quei passi, di convincere che il superamento delle linee rosse di prima è nell’interesse di tutti, compreso l’interesse nazionale dei recalcitranti.
A ricordarcelo, e a dimostrarlo, è Marco Buti, il quale, con questo libro, fornisce alle nostre conoscenze sulle vicende europee un contributo che pochissimi altri potrebbero dare. Di tali vicende, infatti, l’autore è stato per decenni partecipe dall’interno, prima come funzionario della Direzione Generale Affari Economici, poi come suo direttore e da ultimo come capo di gabinetto del commissario Gentiloni (dopo essere stato anche in altri gabinetti, compreso quello di Romano Prodi). Altri funzionari dell’Unione hanno dimostrato in passato di saper raccontare ciò che avevano vissuto, ma si tratta di contributi rari; tanto più rari nella dimensione e con il respiro di questo libro, che spazia in lungo e in largo nella storia ormai ventennale dell’euro e nelle successive crisi intervenute nel corso di essa.
È proprio la prima di tali crisi, quella economico finanziaria iniziata nel 2008, a dare la riprova – sostiene Buti – dei limiti entro i quali le accentuate difficoltà riescono a produrre cambiamenti virtuosi. Certo, fu la crisi a dare la spinta necessaria alla creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità, un fondo per fronteggiare emergenze finanziarie in cui si trovassero o gli Stati o le banche. Ma il governo di esso fu affidato a un complicato congegno intergovernativo e la sua stessa creazione, su richiesta degli Stati del Nord (restii ad accollare ai propri contribuenti i rischi dovuti agli alti debiti di alcuni Stati del sud) fu condizionata a un inasprimento delle regole fiscali, che andò a danno dell’intera economia europea. In tal modo, l’interesse nazionale di alcuni deviò il passo avanti che si stava facendo e l’opportunità della crisi venne utilizzata a metà.
Pensa Buti – ed ha ragione – che la crisi pandemica sia stata sfruttata assai meglio. Nonostante in materia sanitaria il Trattato attribuisca all’Unione una competenza solo complementare rispetto agli Stati, non c’è voluto molto perché gli stessi Stati capissero che era nel loro interesse concentrare nella Commissione gli acquisti e la distribuzione dei vaccini, oltre che adottare regole prudenziali comuni. Non solo, ma si è giunti poi, per la prima volta, ad autorizzare la Commissione a fare un grosso debito comune, per finanziare i singoli Stati nelle spese post-pandemia, ritenute di interesse comune.
È, dopo la nascita dell’euro, il passo più lungo mai fatto sulla via dell’integrazione. Non solo per il debito comune e per l’impegno pluriennale assunto da tutti di ripagarlo pro quota. Ma anche per il ruolo conferito alla Commissione ai fini della valutazione dei progetti di spesa degli Stati e della sorveglianza su di essi. Qui, la linea rossa dei congegni preferibilmente intergovernativi è stata superata. E Jean Monnet ha avuto ragione. Ma già siamo alla crisi successiva, a quella che, mettendo insieme alcune delle distorsioni prodotte dalla pandemia con gli effetti della guerra tuttora in corso in Ucraina, ha portato a una necessità nuova: la necessità di dotarci di “autonomia strategica”, non solo in campo militare, ma in tutti i settori produttivi nei quali un mercato non più globale potrà non essere in grado di rifornirci. Buti si sofferma a lungo su queste nuove prospettive ed anche sui modi in cui esse possono combinarsi con andamenti particolarmente sfavorevoli dell’economia, come la temuta stagflazione.
Siamo attrezzati davanti a tutto questo? È qui che l’autore dà il meglio di sé, da un lato fornendo le regole che l’esperienza gli ha insegnato per fronteggiare le situazioni nuove, dall’altro applicandole in concreto con proposte motivatamente sostenute di profonda innovazione. Le regole il lettore deve godersele e faccio solo pochi cenni: dall’evitare la piramide rovesciata, che porta a concentrarsi sugli scarti di pochi decimali anziché sui grandi errori, allo sfuggire alle idee che non passano, sapendo che nell’Unione la linea che congiunge A e B non è mai una linea retta, ma va percorsa, puntando comunque ad arrivare a B.
Oggi il percorso che dobbiamo fare è quello che consente di rendere permanente e non una tantum il passo fatto dopo la pandemia: dotare l’Unione di una capacità fiscale centrale, che la abiliti a produrre i beni pubblici europei che ci servono e a combattere le avversità economiche con un’efficacia che le politiche fiscali nazionali non possono avere. La necessità di politiche industriali comuni è fuori discussione, soprattutto nei settori più avanzati: davvero le si può perseguire allentando le briglie sugli aiuti di Stato che i singoli Paesi membri possono dare alle proprie imprese? Insomma – ci dice l’autore senza dircelo – dopo anni ed anni di mercato comune è nata l’economia europea ed è nostra responsabilità farla vivere come tale e tutelarne gli equilibri generali. Non possiamo più far finta che basti coordinare le politiche nazionali. Di qui le critiche che il libro riprende all’intergovernativismo perdurante dell’Eurozona (ministri responsabili solo verso i loro parlamenti nazionali adottano decisioni di valenza europea per le quali in Europa non rispondono a nessuno). Di qui la riproposizione del ministro dell’Economia europeo, avanzata dalla Commissione già nel 2017. Di qui la politica fiscale europea, che affianchi finalmente la politica monetaria nel governo della nostra economia.
Marco Buti lo scrive che una riforma così radicale è impresa ardua. Ma non stupisca se aggiunge: in periodi di profonda incertezza come l’attuale, darsi obiettivi così ambiziosi è la strategia “più prudente”. Di contro – è bene saperlo – c’è l’essere sbattuti dai marosi. Meglio allora dar ragione a Monnet.