Il Messaggero, 23 aprile 2023
Intervista a Renato Zero
Bravo, bravissimo, bis eccetera eccetera. Punto. Per rendere l’idea di quanto ancora funzioni quello che fa Renato Zero, dopo 55 anni d’attività, meglio dare i numeri che sprecare parole: i 24 concerti (l’ultimo, quello del 4 maggio al Palasport di Roma, è stato aggiunto 5 giorni fa) del nuovo tour Zero a Zero, una sfida in musica, partito il 7 marzo da Firenze, hanno totalizzato finora 280 mila spettatori paganti. Insomma, un successo che non conosce flessioni (solo a Roma lo scorso settembre ha tenuto sei concerti di fila al Circo Massimo per 112 mila persone). Renato parla al telefono da Eboli, dove stasera si esibirà al Palasele, e ogni tanto si sente qualcuno che urla il suo nome.
Com’è andata la sfida fra la persona Renato e il personaggio Zero?
«Zero ha riconosciuto i suoi limiti e io gli ho confermato la scrittura... (ride). Lui è più superficiale, io sono più composto e rigoroso».
La convivenza è stata mai realmente difficile?
«Mai. Io sono l’ossigeno, lui la bombola. Senza di me,
ndo va? Comunque guardarsi dentro e accettarsi è una roba che ha fatto riflettere anche il pubblico sui percorsi di consapevolezza e crescita. Oggi tutti vanno dietro all’estetica farlocca dei social che nasconde la vera identità delle persone».
In questo tour c’è qualcosa che l’ha stupita?
«Ovunque vada, nei miei confronti c’è quasi devozione. I giovani mi chiamano maestro, gli anziani mi vedono e si commuovono... Mi sembra incredibile, però mi piace. Prendo questo affetto come la croce da Gran cavaliere che nessuno mi ha mai dato».
Sta dicendo che non è stato considerato e gratificato dalle istituzioni?
«Lo Stato non partecipa alle sventure e ai trionfi degli italiani, riscuote e basta. La meritocrazia è del tutto ignorata».
Si sono dimenticati di lei?
«Con la mia musica non mi sono mai sottratto per cambiare in meglio questo Paese: a 17 anni, per esempio, ho scritto
Qualcuno mi renda l’anima contro la pedofilia. Quindi un riconoscimento per tutto quello che ho fatto penso di meritarlo».
Speriamo, allora, che qualcuno suggerisca il suo nome al presidente Mattarella.
«Sì, ma non solo il mio, anche quello di tutti quei grandi lavoratori che mandano avanti la baracca. L’Italia ha bisogno di brava gente che faccia da esempio per tutti, ma chi può farlo deve gratificarli».
Dal suo osservatorio come vede l’Italia?
«Il Sud è completamente al buio, gli hanno staccato il contatore. Da Roma in giù siamo tutti extracomunitari. La mia città così in basso, io che sono nato nel 1950, non l’ho mai vista. E mi manca anche quella Roma puttanona che si dava a tutti, sorrideva e aveva sempre la battuta pronta».
Temi come identità di genere, uguaglianza e libertà sono i suoi da sempre: oggi che sono attualissimi un po’ li considera una sua vittoria?
«Diciamo che nel mio giardino i semi erano puri e fecondi. Sono stato fortunato, oltre che paziente e accomodante. Alla fine degli Anni ’60 uno come me non s’era mai visto. Me la sono vista brutta spesso. Quando mi insultavano per come mi mostravo mi salvavo con la dialettica. A chi mi voleva picchiare chiedevo: “Perché mi odi? Che cosa ti ho fatto? Ragioniamo”. Glielo dicevo in italiano forbito, li spiazzavo, e mi lasciavano stare».
È sempre andata bene?
«No. Un giorno, mentre facevo l’autostop, scese uno dall’auto, si avvicinò, e senza dire una parola mi diede uno sganassone fortissimo. Rimasi come un deficiente, steso per terra. Mi fece volare la parrucchetta rossa che mi ero messo in testa. Me ne tornai a casa sconsolato. Non era serata».
La peggiore?
«Un giorno, con un’amica, facendo l’autostop ci caricarono tre ceffi: io andai dietro, in mezzo a due, lei davanti. Quello che guidava si mise a tastare le cosce di Rita, che gli disse di smetterla. Io, da dietro, feci il duro: “Lasciala stare che mi incazzo!”. Quello si girò: “Statte zitto che te se cucinamo pure a te”. Rita aprì lo sportello e fece per buttarsi in corsa. Rimasero così impressionati che ci fecero scendere a calci».
Anche artisticamente all’inizio non fu facile, giusto?
«Certo. Nel 1973, in via Garibaldi a Roma, feci un concerto per un solo spettatore. Il giorno dopo, però, lo stesso signore tornò con 12 persone. Il passaparola mi ha sempre aiutato».
Nel 2018 con il progetto Zerovskij disse che le sarebbe piaciuto andare a Broadway e all’Olympia di Parigi: ce l’ha ancora quel desiderio?
«Non lo so. C’è l’ostacolo della lingua: sarei un altro se non cantassi in italiano».
La prossima fermata quale sarà?
«Vorrei fare come il sassofonista inglese Ronnie Scott, che nel 1959 aprì a Londra il mitico Jazz Club (lui è morto nel 1996, ndr). Faceva accoglienza e intrattenimento a 360 gradi. Come me quando avevo il tendone di Zerolandia. Sto pensando a un locale così. Ci sto lavorando».
Il sogno Fonòpoli è ormai andato?
«No. Ma ci vorrebbero degli imprenditori motivati...».
Un erede artistico ce l’ha o no?
«Tanti giovani, visto che non ci sono più quei discografici che scelgono e fanno crescere, fanno solo copia e incolla».
Achille Lauro e Rosa Chemical, quindi, sono fuori gioco?
«Io dovrei anche essere contento di certe attenzioni, però a me piace l’originalità. Amo chi ha una sua identità».
Con il film “Ciao Nì!” nel 1979 incassò più di “Superman": perché non ne ha più fatti?
«Lo girai con la Cineriz, guidata da Fulvio Frizzi, papà di Fabrizio. Solo che subito dopo lui morì, e io lasciai perdere».
È sempre un accanito giocatore di Playstation e un fan di Super Mario Bros?
«Certo. Ho appena comprato l’ultima versione del gioco, solo che non ho la console dietro e sono disperato: non posso giocare. Come torno a Roma vado subito a vedere il film».
Che ne pensa della Schlein, segretario del Pd, che è favorevole alla maternità surrogata?
«Chi è? Ah, certo. Si fa molta confusione con le parole. Non mi sembra ci sia urgenza di queste cose. Ci sono tanti bambini da adottare. Bisognerebbe snellire le pratiche per poterlo fare».
Dopo l’intervento al cuore come va?
«Con lo stent molto meglio. Il mio cuore l’ho sfruttato tanto, ma si fa ancora rispettare».
E l’amore?
«Sono sposato con il mio pubblico. E poi, che te devo di’? Ci vuole culo anche per trovare l’anima gemella».
A 72 anni non ha una ruga: 15 anni fa, però, si sottopose a un intervento di liposuzione al collo con il chirurgo plastico Paolo Santanché, ex marito di Daniela Santanché: ha fatto altro?
«Ahahaha (ride). Non ho una ruga perché mi sono abbronzato solo due volte in vita mia. Una di queste mi sono sorpreso: non ero io. Fossi stato Otis Redding l’avrei accettato... (ride). Adoro Ray Charles, Ella Fitzgerlad, Whitney Houston... Amo i neri: sono detestati perché sono i più forti in tutto. Io mi vesto di nero anche per solidarizzare con loro».
Il nero un po’ sfina.
«Vabbè. Aspetti, le passo una persona».
«Sono Andrea Bocelli, buona giornata».
«Ha capito con chi stavo? Ha visto che amici ho?».