La Stampa, 23 aprile 2023
Bernardo Valli ricorda Italo Calvino
Sono stato a Santiago de Las Vegas per vedere dove è nato Italo Calvino, nel 1923, in una famiglia italiana che gestiva la Stazione sperimentale di agricoltura. Il padre era un agronomo ligure, ed era di una famiglia mazziniana, repubblicana, anticlericale. La madre, Eva Mameli, una botanica sarda. Entrambi sono stati professori universitari. A Cuba si occupavano della produzione di canna da zucchero. Il luogo dove è nato Italo non è molto distante dalla capitale, l’Avana, e a ricordare l’evento c’è una piccola targa. La stazione agronomica è ancora lì. A qualche decina di metri si vede una scaletta in muratura, orfana, sola in mezzo a un campo, salire verso un piano alto che non esiste più: è tutto quel che resta di casa Calvino.
I Calvino, provenienti da un lungo soggiorno in Messico, lasciarono Cuba quando Italo aveva quattro anni e ritornarono a Sanremo, la città del padre Mario. Il quale era stato trascinato in avvenimenti avventurosi prima di approdare in America Latina, terra non di emigrazione per lui, ma piuttosto d’esilio. Meglio, un rifugio. Per Mario Calvino tutto era cominciato con un invito a recarsi nella Georgia caucasica come agronomo esperto di viticultura, ma il lavoro non era andato come previsto. Abbandonato il progetto aveva ceduto (per solidarietà anarchica?) il suo passaporto italiano a un dissidente, Vsevolod Lebedincev, personaggio coinvolto nel 1908 in una cospirazione anti zarista e come tale presto arrestato e condannato a morte. Quel passaporto italiano trovato in suo possesso mise il padre di Calvino di fronte a incresciose e pericolose conseguenze, in Russia, ma anche in Italia. È forse per allontanarsi che decise di accettare una proposta di lavoro in Messico. A cui seguì Cuba. È una vicenda avventurosa che precede la nascita di Italo.
Per Italo l’infanzia e l’adolescenza vissute nel porto ligure scorrono serenamente. Diventa un balilla né riluttante né militante. Su richiesta dei genitori, non assiste alle lezioni di religione nel liceo statale Gian Domenico Cassini, dove ha come compagno di classe, spesso di banco, Eugenio Scalfari, figlio del direttore del Casinò di Sanremo. Italo si appassiona presto ai libri d’avventura. Una delle sue prime letture è Il libro della giungla di Kipling. Nel 1938 si dedica al disegno, e i fumetti sono forse la sua prima forma di espressione. La letteratura occupa sempre più spazio nei suoi interessi, con il cinema e il teatro. Un giornale di Genova ospita i suoi primi scritti, brevi recensioni cinematografiche. E nel ’42 partecipa al concorso dei gruppi universitari di Firenze con un lavoro teatrale, La commedia della gente. Sotto il titolo Pazzo io o pazzi gli altri pubblica una serie di racconti che passa anch’essa inosservata.
L’8 settembre, l’avvento della Repubblica di Salò, lo costringe a nascondersi per sfuggire alla chiamata alle armi. Nel ’44 si unisce alla Resistenza sulle montagne liguri. Ha ventun anni e l’esperienza tra i partigiani ispirerà il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, e una raccolta di racconti, Ultimo viene il corvo. Nei mesi vissuti alla macchia, mentre la Repubblica di Salò agonizza e la ritirata dei tedeschi dalla penisola è ormai da tempo inarrestabile, Italo Calvino comincia col definirsi anarchico, ma la frequentazione con i comunisti e l’ammirazione che gli ispirano nelle azioni partigiane lo avvicinano al Pci che diventerà presto il suo partito. Lo abbandonerà dopo avere collaborato con l’Unità e Rinascita: rompe nel ’57, un anno dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria. Nel ’52 aveva pubblicato il Taccuino di viaggio in Urss, risultato della visita per l’Unità nella potenza comunista. Il confronto con il mito americano avviene nel ’59 durante il viaggio di sei mesi che compie negli Stati Uniti.
Nel ’64 appaiono le prime Cosmicomiche e, sempre in quell’anno, lo scrittore ritorna all’Avana, nel paese dove è nato. Vi resta due mesi e sposa Chichita, vezzeggiativo imposto da una tata messicana a Esther Judith Singer, argentina, interprete all’Unesco a Parigi, amica di Aurora e Julio Cortázar. Italo l’ha conosciuta anni prima durante un ciclo di conferenze. A Che Guevara, ucciso in Bolivia nel ’67, dedica un articolo di forti sentimenti. Quattro anni dopo con altri intellettuali amici di Cuba, sottoscriverà una lettera di condanna a Fidel Castro per le repressioni compiute dal suo regime.
Mario Lavagetto, critico letterario con una profonda conoscenza della psicoanalisi, è il presentatore ideale delle Fiabe italiane di Italo Calvino (Mondadori). L’idea è di raccogliere le più belle novelle del popolo italiano da collocare accanto a quelle dei Grimm e di Afanas’ev. Giulio Einaudi, l’editore, incarica Calvino, nel gennaio del ’54, di trasmettere un messaggio a chi è interessato al progetto: si tratta di creare «una lettura fresca per un pubblico non di studiosi pur essendo condotta con tutti i crismi della ricerca folcloristica italiana». Un lavoro con un’ineccepibile base filologica, tuttavia ispirata a «criteri essenzialmente poetici». C’è chi suggerisce senza successo di pubblicare nel testo originale, quindi in dialetto, le fiabe toscane, umbre, venete, e invece quelle delle altre regioni in traduzione italiana.
Il narratore designato, Calvino, sospenderà per nove mesi il suo lavoro editoriale presso Einaudi per occuparsi delle duecento novelle da convertire in italiano e raccogliere in un volume. Nella prefazione che precede l’introduzione di Calvino, Mario Lavagetto descrive gli umori del giovane letterato. Ha poco più di trent’anni e affronta un’opera imprevista e, per varie ragioni, difficile. Di questo lavoro impegnativo Calvino ricorda: «Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni genere da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo delle varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo delle costanti in ogni serie, contaminavo una serie con un’altra, immaginavo nuove serie in cui personaggi secondari diventavano protagonisti... la lettura delle figure senza parole è stata certo per me una scuola di fabulazione di stilizzazione di composizione dell’immagine». Leggere le fiabe, metterle a confronto, sceglierle, contaminarle. Pare che da ragazzo Calvino non fosse un grande ascoltatore di fiabe. Si potrebbe considerare il libro del ’56 «un meraviglioso risarcimento», conclude Lavagetto.
Il 6 giugno 1984 Italo è invitato dall’Università di Harvard a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures, sei conferenze nel corso dell’anno accademico ’85-’86 nella sede dell’università, a Cambridge, nel Massachusetts. Il termine poetry può comprendere in questo caso letteratura, musica, arti figurative, e la scelta del tema è libera, è riservata all’invitato. Chichita, la moglie, scrive che dal momento in cui riuscì a definire i temi da trattare («alcuni valori letterari da conservare nel prossimo millennio») Calvino dedicò tutto il suo tempo alla preparazione delle conferenze. Presto diventarono un’ossessione. Scrive Chichita, testimone quotidiana: «Un giorno mi disse di avere idee e materiali per almeno otto lezioni». Sei erano in programma e ne riuscì a scrivere cinque, perché nel settembre dell’85 morì. Gli argomenti delle Lezioni americane (Garzanti, giugno 1988) sono: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità (Lightness, Quickness, Exactitude, Visibility, Multiplicity) e la sesta si sarebbe dovuta chiamare Consistency, e secondo Chichita avrebbe riguardato Bartleby di Herman Melville.
Negli ultimi mesi di vita Italo, unico italiano invitato, ha ripetuto, ma non concluso, il difficile esercizio di Cambridge già compiuto da T.S. Eliot, Igor Stravinsky, Jorge Luis Borges, Octavio Paz. Se ne va da questo mondo con quell’opera incompiuta sotto il braccio.
Prima di andarsene scopre che, tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la sua materia prima e l’agilità scattante che voleva animasse la sua scrittura, c’è un divario faticoso da superare. «Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura se non si trova il modo di sfuggirle». Queste parole si leggono nella Leggerezza, prima luminosa lezione americana. —