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 2023  aprile 23 Domenica calendario

Joe Biden rilancia la produzione industriale

In due anni gli Stati Uniti hanno riportato a casa ottocentomila posti di lavoro, aprendo nuove fabbriche in attività che prima erano state delocalizzate, in Cina o altrove. Sembra cominciato quel ritorno di attività manifatturiera reso auspicabile da pandemia e guerra, che hanno rivelato la nostra vulnerabilità. Molti erano scettici perché l’America per tornare a «fabbricare cose» deve superare problemi noti in Italia: costi alti, mancanza di manodopera, vincoli di natura ambientalista o burocratica. Di fatto sta superando quegli ostacoli. L’industria Usa si è rimessa a fare una cosa che sembrava appartenere al passato: aprire nuove fabbriche sul proprio territorio.
Ritorno in fabbrica
Il Wall Street Journal in una recente inchiesta annunciava «America Is Back in the Factory Business», cioè l’America è di ritorno nel mestiere di fabbrica. I dati del censimento indicano che nel solo 2022 sono stati investiti 108 miliardi di dollari nella costruzione di nuovi stabilimenti produttivi, molto più di quanto è stato speso per costruire uffici. I numeri vanno messi nella giusta prospettiva. Ottocentomila nuovi assunti in un biennio, ri-localizzando attività dai paesi emergenti, sono tanti ma non tantissimi, visto che in un solo mese (marzo) il mercato del lavoro Usa ha generato 236.000 assunzioni. Un altro punto di riferimento è il totale degli occupati nell’industria: 13 milioni. Non si ribalta in poco tempo un flusso di delocalizzazioni che durava da trent’anni. Dopo gli accordi Nafta degli anni Novanta che avevano creato il mercato unico con Canada e Messico, dopo l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (2001), lo smantellamento di attività manifatturiere aveva eliminato dai sei ai dieci milioni di posti di lavoro operai in America, secondo le stime più diffuse.
La globalizzazione
Quell’età aurea della globalizzazione si è infranta negli shock del Covid e della guerra di Putin. Abbiamo scoperto i costi di una dipendenza eccessiva da fornitori lontani. Dai lockdown alle sanzioni, gli ostacoli recenti al flusso globale delle merci ci hanno allarmato. Sparpagliare su più continenti produzioni essenziali ha ridotto i costi ma ci ha reso fragili: come consumatori, pazienti, cittadini. Le auto non arrivano più dai concessionari senza i semiconduttori da Taiwan o dalla Corea.
Certi medicinali scarseggiano se mancano principi attivi prodotti in Cina. I materiali indispensabili per le tecnologie verdi (batterie per auto elettriche, pannelli solari) sono appesi a catene di fornitori che vanno dalla Bolivia al Congo, con un passaggio finale (la trasformazione) nella solita Cina. Gli ottocentomila posti «tornati a casa» in America non sono un numero enorme però possono segnalare un’inversione di tendenza, l’inizio di una fase nuova, all’insegna dell’autodifesa.
Resta molto da fare. Non appena la Cina ha decretato la fine della pandemia le sue esportazioni hanno ripreso a galoppare. È segno che siamo ancora dipendenti. Però l’esperienza degli Stati Uniti indica che la dipendenza può cominciare ad attenuarsi, in quei settori giudicati prioritari per la sicurezza nazionale o per il futuro assetto dell’energia. Circa la metà delle nuove fabbriche che sono state costruite in America nel biennio, si concentrano in due settori soltanto: i semiconduttori e le batterie elettriche. Possiamo continuare a importare tanto «made in China», purché non consegniamo a Xi Jinping le chiavi del nostro futuro energetico e tecnologico. Né basta spostare produzioni verso Paesi emergenti più affidabili come India, Vietnam, Bangladesh. L’Italia può aspirare ad attrarre investimenti per le ri-localizzazioni, e in effetti molte imprese italiane ci stanno pensando, come rivela un’indagine di Lorenzo Tavazzi per Ambrosetti-Promos. Gli ostacoli sono noti. I costi più elevati a cominciare dal lavoro. La mancanza di manodopera con vocazione e formazione operaia o tecnico-ingegneristica. La burocrazia, che la Cina comunista alleggerì fin dagli anni Ottanta con la proliferazione delle «zone economiche speciali» dove ogni procedura è semplificata.
Il pragmatismo
Il caso americano indica che il pragmatismo aiuta, se non proprio a eliminare, quantomeno ad attenuare quegli ostacoli. Sul fronte dei costi, il lavoro operaio è ancora più caro in America che in Italia. Però si può guadagnare competitività con l’automazione e si possono compensare i costi con i sussidi pubblici. L’Amministrazione Biden dà l’esempio con due leggi varate nel biennio, l’Inflation Reduction Act che eroga aiuti di Stato per le tecnologie sostenibili (370 miliardi di dollari). Altri 280 miliardi di dollari sono nella manovra a favore di ricerca e innovazione; di cui 52 miliardi riservati ai semiconduttori nel Chips Act.
In un certo senso Washington «copia Pechino», dopo decenni in cui l’industria cinese ha fatto terra bruciata in casa nostra con la concorrenza sleale sostenuta dai suoi aiuti di Stato. L’Unione europea prima ha esitato a inseguire Xi Jinping e Biden su questo terreno, di recente sembra più flessibile. Purtroppo la Germania ha ben più risorse di noi da destinare a questo genere di politica industriale. Però i soldi del Pnrr se ben spesi aiuterebbero anche l’Italia. In quanto alla penuria di manodopera operaia, anche qui è visibile il pragmatismo americano. Biden è «trumpiano» contro gli ingressi illegali, ma ha riaperto i canali dell’immigrazione legale chiesta dalle imprese (sette milioni di permessi di lavoro nel 2022). Inoltre non è del tutto vero che gli americani non vogliono più lavorare nell’industria: a certe condizioni lo fanno. È istruttivo scoprire che nel dopo-pandemia, e con le frontiere semi-chiuse all’immigrazione, il tasso di disoccupazione della componente «black» è sceso ai minimi storici, ormai vicino a quello dei bianchi. Il dato va affiancato a quello sui forti aumenti salariali per le mansioni operaie. Se pagate bene, le vocazioni manifatturiere rinascono.
La burocrazia
Sui costi dell’energia Biden mescola ambientalismo e realismo: le energie fossili non possono essere abbandonate di colpo, se non si vuole penalizzare la competitività e uccidere lo sviluppo. In quanto alla semplificazione burocratica, come rispondere al proliferare di «zone economiche speciali» che dalla Cina ad altri Paesi emergenti offrono sportelli unici, corsie preferenziali, procedure veloci e semplificate, sconti fiscali?
L’America ha una forma estrema di federalismo, per cui a volte è lo stesso governatore di uno Stato a offrire direttamente facilitazioni e incentivi in aggiunta a quelli federali, per attirare multinazionali come Tsmc (taiwanese), Samsung e Lg (sudcoreane) a costruire fabbriche sul suo territorio. Si può obiettare che questa è una nuova concorrenza al ribasso, in cui gli Stati, le regioni, perfino le città, fanno a gara nel ridurre gli oneri sulle imprese. La risposta a questa obiezione non si limita a constatare che «così fan tutti». Va aggiunto che la pretesa occidentale di esportare regole, di raddrizzare tutti i torti del mondo a colpi di imposizioni e controlli, tasse e balzelli, non ha dato risultati spettacolari. La rinascita del made in Usa, per quanto allo stadio iniziale, dimostra che buon senso e moderazione potrebbero tornare di moda.