Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 23 Domenica calendario

L’Italia delle culle vuote

Il manuale della Central Intelligence Agency consegna all’Italia un primato particolare: quest’anno diventa il sestultimo Paese al mondo per tasso di natalità davanti solo a Corea del Sud, Giappone e ai mini-Stati di Andorra, Montecarlo e Sant Pierre e Miquelon. Meno ovvio è capire cosa sia successo a questa comunità nazionale che nel dopoguerra, fino alla metà degli anni ’70, ha prodotto quasi ogni anno il maggior numero di figli in Europa occidentale. Oggi siamo scesi a poco più di un terzo delle nascite raggiunte al picco del baby boom, nel 1964.
Perché un Paese entra così profondamente in recessione demografica? Le spiegazioni di natura psicologica, sociale, economica e di costume sono sempre difficili da districare. Non ne esiste mai una sola. Ma non tutt’Italia si muove all’unisono e confrontare quel che è successo negli ultimi anni in ogni provincia può dare degli indizi e un quadro delle risposte possibili.
Perché, appunto, non tutta Italia è uguale in questo inverno delle nascite. Da quando la recessione demografica è iniziata nel 2008, Bolzano ha visto crescere il suo tasso di fecondità del 7% a 1,72 figli per donna nel 2021, mentre Prato l’ha visto crollare del 30% (1,1 figli per donna) e Roma del 22% a 1,18 figli per donna: così la capitale è molto sotto la già bassa media del Paese. Cosa alimenta queste macroscopiche differenze?
Una spiegazione ricorrente riguarda la debole assistenza alle famiglie, in particolare l’offerta troppo scarsa di posti in asili nido. Eppure, per quanto questi siano importantissimi, dai dati non si direbbe che la disponibilità nei diversi territori sia strettamente correlata all’andamento delle nascite. La provincia di Trento per esempio ha quasi il doppio dei posti in asilo nido per ogni cento bambini entro i 36 mesi di età, rispetto a Bolzano, eppure dal 2008 ha visto scendere il suo tasso di fecondità a doppia cifra. Oggi Trento è molto sotto alla provincia vicina come numero di figli per donna. Rimini dal 2008 presenta il secondo più forte crollo della fecondità in Italia e ormai viaggia quasi a livelli «sudcoreani» – i più bassi al mondo – eppure ha molti più posti in asilo nido della media italiana. Dall’altra parte province come Trapani, Cosenza, Siracusa o Ragusa hanno strutture per la prima infanzia estremamente carenti, ma per loro il tasso di fecondità dl 2008 praticamente non è sceso. Trapani era sotto la media nazionale allora e oggi è sopra. Anche un incrocio più sistematico dei dati non indica che in Italia un maggior numero di posti nei nidi si correla con una maggiore propensione a procreare: probabile che il ruolo dell’aiuto informale dei nonni sia il fattore che sfugge ai dati Istat.
Province a confronto
Bolzano ha visto crescere il tasso di fertilità a quota 1,7 Crollo invece a Rimini
Allora cosa spiega il collasso della natalità? Dall’incrocio dei dati, una correlazione banale ma potente emerge su tutte: le province nelle quali le nascite diminuiscono di più o sono più basse, dal 2008 in poi, di più tendono a essere quelle nei quali è diminuita di più la popolazione femminile in età fertile. Anche qui non mancano le eccezioni. Ma la correlazione è corroborata da un generale incrocio dei dati e dai casi specifici.
In media italiana dal 2008 al 2019 (si tratta dei più recenti dati Istat disponibili) il numero di donne fra i 16 e il 45 anni di età è diminuito del 14%, mentre il tasso di fecondità è diminuito del 13%. Province come Ascoli, Ancona, Pesaro e Urbino e ancora Rovigo, Asti, Alessandria o la Valle d’Aosta mostrano tutte sia un calo percentuale superiore alla media del numero di donne in età fertile che nella fecondità.
Certo sembrano profilarsi anche altre cause, più complesse. Per esempio Milano, Roma e Firenze vengono solo dopo Potenza per età media delle donne al parto (33,3 anni) e non casualmente mostrano tutte dei cali del tasso di fecondità molto superiori alle medie nazionali. Partorire tardi, per ragioni sociali legate magari al mercato del lavoro, non permette di avere più figli. Ma non c’è dubbio che l’Italia stia pagando in questi anni il prezzo del suo primo inverno demografico, cioè il crollo del 43% delle nascite fra il 1970 e il 1995: semplicemente, ci sono sempre meno donne, e anche sempre meno uomini, in grado di procreare perché allora ne sono nate sempre meno. Così in futuro il Paese pagherà anche l’attuale calo delle nascite. Non a caso il presidente uscente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, ripete spesso che neppure le politiche più efficaci sarebbero in grado di riavvicinare le nascite alla media di due figli per donna che mantiene inalterata popolazione. La piramide è già troppo squilibrata, le poche donne fertili dovrebbero avere un numero inverosimile di figli per ciascuna. Le misure per la natalità sono dunque necessarie ma insufficienti, da sole, per stabilizzare il quadro demografico nel Paese. Come gestire l’immigrazione dipende però dalle preferenze politiche.