Corriere della Sera, 22 aprile 2023
Il punto sull’Italia del 1945 nel carteggio Basffi-Caffè
Il 25 aprile 1945 è passato da meno di tre mesi, quando un giovane di 34 anni scrive a un collega trentunenne una lettera piena di cifre disposte su tre colonne verticali. Cinque giorni più tardi il trentunenne risponde con una lettera piena di cifre disposte, invece, su quattro colonne verticali. Il primo si chiamava Paolo Baffi, il secondo Federico Caffè. Cercavano di misurare l’eredità che il fascismo e la guerra avevano lasciato alla loro generazione.
Baffi era il più anziano fra i due. Trent’anni dopo sarebbe diventato governatore della Banca d’Italia, quindi nel 1979 sarebbe stato costretto a dimettersi per una serie di false accuse costruite contro di lui negli ambienti della P2 e del finanziere Michele Sindona. Nel suo diario dei giorni in cui lasciava via Nazionale Baffi, ormai anziano, avrebbe annotato: «Non posso continuare a identificarmi col sistema delle istituzioni che mi colpisce o consente che mi si colpisca in questo modo».
L’uomo al quale Baffi scriveva nel luglio del 1945 aveva iniziato a lavorare all’età di dieci anni, bigliettaio in un cinema di Pescara. Sempre lavorando – impiegato del Banco di Roma – si era laureato in Economia e a soli 25 anni insegnava già all’università nella capitale. Dopo l’8 settembre Federico Caffè si era dato alla macchia come partigiano, per poi diventare uno dei maggiori economisti e maestri di classe dirigente nell’Italia repubblicana, con allievi come Mario Draghi, Ignazio Visco e moltissimi altri. Fino alla notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987. Quella sera Caffè esce dall’abitazione romana fra Monte Mario e la Balduina, dove abitava con l’anziano fratello, e fa perdere le proprie tracce per sempre.
Ma tutto questo sarebbe venuto decenni dopo. Nel luglio del 1945 Baffi e Caffè erano esponenti scelti di un ceto di grand commis in formazione che cercava di emergere dalle macerie. Sapevano di esserlo: Baffi era appena stato nominato dal governatore Luigi Einaudi capo del Servizio studi della Banca d’Italia; Caffè, lui stesso del Servizio studi di via Nazionale, era capo di gabinetto del ministro della Ricostruzione Meuccio Ruini nel governo di Ferruccio Parri. La loro corrispondenza, conservata negli archivi della Banca d’Italia e finora inedita, è unita a un rapporto redatto dallo stesso Baffi sui danni lasciati nel Paese dalla Seconda guerra mondiale. Non è un semplice esercizio accademico: ne dipendevano, in parte, gli aiuti che il governo avrebbe potuto chiedere agli Stati Uniti.
Quando scrive a Caffè, Baffi è profondamente pessimista. Arriva a una stima di devastazioni pari a tremila miliardi di lire, pari quasi al doppio del prodotto interno lordo che – secondo le stime di Banca d’Italia e dell’Istat – nel 1945 in Italia è di 1.605 miliardi: i danni di guerra stimati valgono il 187 per cento del Pil. Scrive il futuro governatore al collega, con il quale si dà rigorosamente del lei. «Si giunge (con i calcoli, ndr) a tremila miliardi, i quali rappresentano non il totale delle distruzioni di guerra (che è superiore perché include tutto quello che è stato distrutto ma rimpiazzato con la produzione degli anni di guerra), bensì il costo che presumibilmente dovrà essere sostenuto per ricondurre la ricchezza nazionale al suo livello d’anteguerra». E avverte, Baffi: «Si badi che tale opera richiederà alcuni decenni, durante i quali il Paese soffrirà della mancanza del frutto di tutto ciò che, distrutto, non sia ancora stato ricostruito».
Baffi si rivolge a Caffè per confrontare i costi delle devastazioni della Seconda guerra mondiale a quelli della Prima. E Caffè non si sottrae: «Varie circostanze sembrano legittimare l’impressione che le statistiche sui danni relativi alla guerra 1915/18 siano state volutamente “gonfiate” per fini politici» (intende: per alzare le riparazioni richieste alla Conferenza di Versailles nel 1919). Caffè poi passa in rassegna alcuni studi e relazioni per concludere: «Un confronto fra i dati (...) farebbe giungere alla conclusione che i danni subiti dal Paese durante la Seconda guerra mondiale siano circa 5,3 volte maggiori di quelli subiti con la guerra 1915/18». Poi va a capo e aggiunge, secco: «Il che sembra troppo poco». Di nuovo a capo: «Ora, dai dati da Lei forniti, risulterebbe un rapporto fra danni e patrimonio di 3/10 nell’attuale conflitto, contro 1/10 nella guerra passata. Ciò tuttavia nella ipotesi che i danni ammontino a tremila miliardi, cifra che io stesso Le accennai ma che è frutto più di una impressione che di una valutazione». In sostanza la disfatta sarebbe costata un terzo del patrimonio esistente all’inizio del 1942 in case, fabbriche, strade, vie ferrate e altri beni materiali. Caffè aggiunge però che c’è un «margine d’incertezza amplissimo» e porta un esempio: tanti vigneti sono distrutti ma, spiega, due persone «entrambe competentissime» indicano una in 250 lire e l’altra in 850 lire (convertiti e rivalutati, rispettivamente circa undici e 37 euro) «il costo del reintegro per ogni vite».
L’economista di Pescara conclude invitando il collega al ministero per parlarne e del resto i due presto si sarebbero ritrovati nella Commissione economica della Costituente. Ma Baffi aveva già stilato calcoli precisi, che allega a Caffè e al direttore generale di Banca d’Italia Niccolò Introna in un rapporto di undici pagine (anch’esso inedito). L’economista stima che il numero dei «vani» distrutti o danneggiati, in gran parte abitazioni civili, arrivi a quattro milioni. Aggiunge che è «circa un ottavo del patrimonio edilizio nazionale», un’incidenza simile a quella che si registra oggi nelle zone dei combattimenti in Ucraina. Quanto all’industria, il «presupposto» è che «i danni diretti ed indiretti ammontino al 30% del capitale investito» mentre dell’agricoltura un decimo è andato distrutto.
Ma è sui mezzi di trasporto che Baffi si supera: delle 4.165 locomotive a vapore del 1938 ne restano 2.081, delle 1.316 locomotive elettriche solo 665, dei 128 mila «carri» (vagoni) 55 mila. Le linee telefoniche e della luce sono divelte con danni per 200 miliardi di lire: oltre sette miliardi di euro, convertiti e rivalutati all’oggi. Le navi mercantili sono in gran parte perdute e qui Baffi sottolinea che ricomprarle in America, data la superiore automazione, costerebbe cinque volte meno che fabbricarle in Italia. Quanto ai camion, rimane meno della metà dei centomila di cui l’Italia disponeva nel 1942. E, di nuovo, il futuro governatore osserva che fabbricarli in parte in Italia costerebbe quelli che oggi sarebbero circa 32 mila euro ciascuno, mentre comprarli tutti negli Stati Uniti – dove il fordismo si è già imposto – sarebbe cinque volte più a buon mercato.
Ma il tono non è compiaciuto di tanto acume, mai. Baffi e Caffè si parlano con una sobrietà e un rigore in cui si sentono la desolazione e un ostinato rimboccarsi le maniche. Sanno che oltre al bilancio morale, civile, politico del fascismo, anche quello materiale è catastrofico. Sono lì per voltare pagina.