il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2023
Era meglio quando era peggio
Sul Corriere Aldo Cazzullo nella sua interessante rubrica di posta, rispondendo a due lettori angosciati per il suicidio della giovane pallavolista Julia Ituma, che gli chiedevano di dare una risposta a questo suicidio, si è affannato a spiegare il fenomeno del suicidio in termini generali, ricorrendo, fra l’altro, insieme ad altre ipotesi più intime, alla “rivoluzione digitale”.
A Cazzullo sembra sfuggire che l’esponenziale aumento dei suicidi nel mondo occidentale ha radici ben più antiche della “rivoluzione digitale”, che è un fenomeno degli ultimi vent’anni. Radici che affondano nel terreno del modello di vita che ci siamo creati dopo l’avvento della Rivoluzione industriale e che l’Illuminismo ha razionalizzato nell’ideologia liberista e marxista. Cazzullo non può accettare, pur da riformista moderato qual è, di dover rispondere alla indecente domanda se “si stava meglio quando si stava peggio” intendendo qui come peggio il mondo pre-industriale e pre-illuminista.
Si potrebbero tirare in ballo per affermare le ragioni del peggio sul meglio, i fattori che erano patrimonio della società, in prevalenza contadina e artigiana, che ha immediatamente preceduto la Rivoluzione industriale: l’identità, la minore solitudine, l’armonia, i forti sentimenti, la bellezza del paesaggio, l’illusione della fede. Mi si è sempre obiettato che questi fattori o valori non sono definibili e quindi qualsiasi raffronto con la società moderna che, al contrario, produce beni fisici e quindi quantificabili non è possibile e comunque è un esercizio ozioso. Ma non è così. Ci sono almeno due fattori, oserei dire quantistici, o comunque statistici, per poter affermare che il peggio era meglio del meglio: i suicidi, appunto, e le malattie mentali. Secondo studi condotti, su una base di quattrocentomila persone, nella Londra del ventennio fra il 1640 e il 1660, la percentuale dei suicidi fu di 2,5 su centomila abitanti. Naturalmente la base presa in esame è troppo ristretta e circoscritta per poter fare una statistica generale dei livelli dei suicidi nell’Europa pre-industriale. Peraltro è molto probabile che il dato londinese di 2,5 pecchi per eccesso e non per difetto perché non è riferito a una realtà rurale quale era, per i quattro quinti, quella della società pre-industriale, ma a una città come Londra che all’epoca, con più di 500 mila abitanti, aveva già le dimensioni di una metropoli moderna ed è noto, dai classici studi di Durkheim (Il suicidio, 1970) che fra i più importanti fattori che determinano il livello dei suicidi c’è l’urbanizzazione, fenomeno peculiare della civiltà industriale.
Ma veniamo a tempi più recenti e a statistiche più controllabili ed estese. Nel 1851 i suicidi, nel mondo industrializzato, erano già 6,8 su centomila abitanti e divennero 19,4 su centomila nel 1975. C’è da notare che le regioni più ricche e industrializzate sono più ‘suicidarie’, per dir così, di quelle più povere e meno industrializzate. Un buon esempio è l’Italia, che comunque, e per fortuna, in generale è agli ultimi posti di questa sinistra classifica. Leggiamo i dati Istat del 2008 che sono gli ultimi forniti in questo campo: “Con riferimento ai valori medi dell’ultimo biennio di disponibilità del dato Istat di mortalità (2007-2008), tra le regioni del Nord i tassi più elevati di suicidio si sono registrati in Valle d’Aosta (11,0 per 100.000), in Piemonte (9,2 per 100.000) e nelle Province autonome di Bolzano e Trento (10,7 e 8,8 rispettivamente). Nell’Italia centrale valori piuttosto elevati sono stati registrati in Umbria (9,7 per 100.000) e nelle Marche (8,3 per 100.000). Tassi di suicidialità particolarmente contenuti (inferiori a 6,0 per 100.000 residenti) si sono invece registrati nel Lazio (5,0), in Campania (5,1), Puglia (5,5), Molise (5,9), Calabria (5,95)”. Comunque anche questi dati mediamente bassi ci dicono che il suicidio è in costante e continuo aumento. Prendiamo la Campania, regione dove ci si ammazza volentieri ma ci si suicida meno: nel 1975 i tassi di suicidio erano 2,1 per centomila abitanti ora sono al 5,1, triplicati. In Calabria si è passati da 2,6 a 5,95, triplicati anch’essi.
Comunque se prendiamo per buona l’analisi londinese di metà del Seicento, i suicidi sono prima triplicati e quindi, stando ai dati disponibili di oggi, decuplicati. Prendiamo il Giappone, aveva un tasso di suicidi del 15,6 nel 1975, nel 1980 era salita a 18,5. Ora è del 23,8. Del resto se siete stati in Giappone avrete notato come nelle stazioni c’è un piccolo pertugio per permettere ai viaggiatori di scendere e poi un reticolato che prosegue per chilometri per impedire che qualcuno si butti sotto il treno, modalità preferita dagli attuali giapponesi al posto del rituale harakiri.
Sulle malattie mentali non abbiamo, per le società pre-industriali, dati attendibili. Sappiamo che erano abbastanza frequenti le forme di demenza dovute a tare ereditarie, lo “scemo del villaggio” che godeva di considerazione e rispetto ritenendosi che, in qualche suo misterioso modo, fosse in diretto contatto con Dio (era il modo sapiente con cui i nostri predecessori inglobavano il “diverso” senza bisogno di Lgbtq+). Della stessa considerazione (rapporto diretto con Dio) godeva il mendico. C’è da notare che in Europa i mendichi erano l’1 per cento della popolazione e in linea di massima erano tali per loro scelta, insomma dei clochard consapevoli e desiderosi di rimanere tali. Nell’Italia odierna sono in condizione di povertà assoluta circa 5,6 milioni di individui (dati Istat). Ma qui ci addentriamo in un altro discorso che è quello delle immense, spudorate, vergognose, volgari disparità sociali nell’universo mondo (Bezos, Elon Musk). Ritorniamo al tema del suicidio e del contesto che lo favorisce, quello ignorato da Cazzullo. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità, l’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale, il fenomeno della droga, non più ristretto a intellettuali e scrittori (Mika Waltari per fare uno dei tantissimi esempi) o all’alta borghesia, è sotto gli occhi di tutti. Si può dire in termini generali che tutti noi basculiamo tra nevrosi e depressioni per trovare una persona sana, equilibrata bisogna andarla a cercare fra i pochi indigeni peraltro in via di estinzione come i rinoceronti. Negli Stati Uniti, 556 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci. Cioè nel Paese guida del mondo occidentale più di un abitante su due non regge la società in cui vive, non sta bene nella sua pelle. Questi sono dati del 1983 ma non c’è ragione di credere che l’abuso di psicofarmaci sia diminuito o non piuttosto aumentato vista l’orgia di violenza che ci viene pressoché ogni giorno da quel Paese.
Ma lasciamo, per concludere, le fredde statistiche. Confrontiamo la stupenda Ninfa di Luca Cranach (1472-1553) esposta alla Nasjonalgalleriet di Oslo con l’Urlo di Munch (1893) esposto anch’esso alla Nasjonalgalleriet. Cranach aveva intuito le stesse cose che hanno intuito Munch o Kafka, ma mentre nella Ninfa, inquietudine, dubbio, sospetto si ricompongono in una superiore armonia estetica, etica e psicologica, nell’Urlo diventano angoscia allo stato puro, senza speranza.