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 2023  aprile 22 Sabato calendario

Storia dell’Adelphi


È nei primi anni Sessanta, con l’edizione critica delle Opere di Nietzsche curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, subito reputata una delle vette della moderna editoria europea, che l’Adelphi inaugura il suo catalogo, che fin dai primi titoli (lo psicoanalista junghiano Ernst Bernhard, le Note azzurre di Carlo Dossi, la Vita di Milarepa «mago, poeta ed eremita» tibetano, l’amarcord familiare e le memorie liberali d’Elena Croce) si distingue da ogni altra offerta editoriale.
Ma come racconta Anna Ferrando in un libro avvincente, Adelphi. Le origini di una casa editrice 1938-1993, le prime mosse dell’Adelphi risalgono, in realtà, a molti anni prima, quando Roberto «Bobi» Bazlen e Luciano Foà, futuri fondatori della casa editrice, cominciano a scambiarsi consigli di lettura e a fantasticare, facendo rimbalzare tra loro titoli e autori, quali libri tradurre. come pubblicarli, e dove.
Siamo nell’Italia fascista, prima e dopo le leggi razziali. Per la cultura alta e senza putipù ideologici non è aria. Foà e Bazlen orbitano intorno alle case editrici dell’epoca, specie le più giovani e audaci: la neonata Einaudi, le edizioni Frassinelli, entrambe torinesi. Leggono, traducono e cercano, per lo più invano, di promuovere autori e libri che il regime disapprova, e che loro mettono da parte, in vista di usi futuri. Passata la guerra, un’Auschwitz più tardi, a disapprovare autori e libri cari a Balzen e Foà sarà un nuovo Minculpop, quello gramsciano-togliattiano, meno autarchico e provinciale ma (se possibile, a dimostrazione che non si tocca mai davvero il fondo) ancora più rigido e intransigente di quello fascista.

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Vent’anni dopo, quando l’Adelphi vede finalmente la luce, le case editrici fortemente caratterizzate sotto il profilo politico e culturale sono la Feltrinelli e l’Einaudi, entrambe inflessibilmente schierate a sinistra. Einaudi, in particolare, è devota al realismo socialista e a György Lukács, filosofo ungherese e autore (tra le altre cose) della Distruzione della ragione, un massiccio libello marxleninista che chiama il proletariato e il nascente «ceto medio riflessivo» alla santa crociata contro l’«irrazionalismo», Nietzsche in testa. Ma Adelphi, che pubblica Nietzsche e che avrà proprio l’«irrazionalismo» per bandiera, non è affatto una casa editrice «di destra» o «reazionaria», come poi, secondo un radicato costume, se la racconteranno a sinistra (e a sinistra della sinistra, compresa la rivista Controinformazione, organo ufficioso delle Brigate rosse negli anni Settanta). Sono o sono stati iscritti al Pci sia Colli e Montinari, curatori delle Opere di Nietzsche, che lo stesso Luciano Foà, ex direttore editoriale Einaudi, che a lungo (scomparso «Bobi» Balzen nel 1965) sarà il primus inter pares nella redazione Adelphi. Niente «destra» o «sinistra». È che Adelphi, semplicemente, pubblica libri che la cultura soi-disant progressista, con i suoi presentatàrm ideologici alle peggiori potenze dell’epoca, da Stalin e Krusciov a Fídel Castro, neppure riconoscono come libri: la moderna letteratura mitteleuropea da Arthur Schnitzler a Joseph Roth e Robert Walse r, le meraviglie della fisica quantistica con le sue inquietanti implicazioni metafisiche, le religioni orientali e la loro ricaduta in Occidente, come nel long seller planetario Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, ignorato da ogni altra casa editrice italiana. Col tempo entrerà in catalogo anche la letteratura cosiddetta «minore», da Raymond Chandler a Ian Fleming, da Eric Ambler a Georges Simenon, più qualche tocco di fantascienza.

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Tutto ciò, agli occhi delle altre case editrici di alto profilo dell’epoca, passa per «irrazionalismo», per «distruzione della ragione», una categoria in cui rientra, in quegli anni, praticamente tutto quanto, da Così parlo Zharatustra al Signor Bonaventura. Con il suo catalogo, che all’inizio stenta a coprire le spese (garantite da sponsor d’eccezione, come il banchiere-mecenate-editore Raffaele Mattioli) e che col tempo troverà il suo mercato e il suo pubblico, Adelphi colma le vaste lacune dell’editoria nazionale. Dal 1970, da quando cioè Roberto Calasso (futuro autore di best seller sospesi tra letteratura, filosofia e storia delle religioni) diventerà direttore editoriale, Adelphi si farà la fama di casa editrice snob, una fama d’eccentricità e raffinatezza certo non immeritata. A questo proposito c’è un aneddoto raccolto da Anna Ferrando: «Come Savinio, anche Alberto Arbasino, sperimentale esponente del Gruppo ’63, fu a lungo conteso fra Einaudi e Feltrinelli, prima di trovare la sua casa in Adelphi. Ad alludervi con la divertita indulgenza di chi ormai per questioni anagrafiche può raccontare con distacco la propria carriera è stato Guido Davico Bonino, il quale ha ricordato le parole lapidarie di Erich Linder, l’agente letterario, quando, sistemando i contratti dello scrittore vogherese, aveva sentenziato: “Da voi non farà mai niente”. “Ma scusi, è un nostro amico, l’abbiamo preso volentieri”. “Sì, sì... ma voi non siete abbastanza snob per venderlo”. E aveva ragione lui». Adelphi, soprattutto a partire dalla direzione Calasso, comincerà a garantire ogni nuovo titolo delle sue collane col proprio marchio: un «libro Adelphi», chiunque ne sia l’autore, e qualunque ne sia il titolo, avrà d’ora in avanti un’identità precisa di libro scelto con cura, «unico» (come voleva Balzen) e non espressione di qualche tendenza, mai scontato, sempre sorprendente.

Sarà anche snobismo, quello adelphiano, per di più un po’ aristocratico, di matrice «alto-borghese», ma c’è uno snobismo peggiore: quello degli editori engagé, che arricciano il naso e mettono il muso di fronte ai libri indisciplinati, che contraddicono la linea generale. Con le sue imbarazzanti smanie sessantottesche e le sue comiche fascette rococò, il catalogo degli editori in auge negli anni Sessanta è invecchiato, e invecchiato male. Chi legge più Bertolt Brecht? E Che Guevara? O Lukács? Qualcuno ancora ricorda le enciclopedie Einaudi o gli opuscoli Feltrinelli firmati dall’editore in persona dopo aver indossato una sahariana da guerrigliero carioca ed essere passato alla «lotta armata»? Morti e sepolti gli altri cataloghi, cataloghi di cui non rimane letteralmente più traccia, cataloghi travolti uno via l’altro dalla caduta del comunismo e dalle tempeste che spazzano via le mode culturali, il catalogo Adelphi è sempre straordinariamente attuale, o meglio continua a essere «inattuale», cioè urticante rispetto a ogni conformismo culturale. Non c’è titolo Adelphi, anche tra quelli pubblicati cinquant’anni fa, nel tempo dei tempi, che non si possa tranquillamente rileggere (o leggere per la prima volta) come se fosse stato scritto ieri sera.
Nella storia della casa editrice ci sono stati, naturalmente, anche inciampi e incomprensioni, come quando Calasso pubblicò Dagli ebrei la salvezza di Léon Bloy, un testo pesantemente antisemita che spinse Luciano Foà, passati gli ottant’anni, a prendere le distanze dalla sua casa editrice (qui non c’è spazio per entrare nei dettagli, ma se Foà aveva le sue ragioni, anche Calasso aveva le sue, come racconta brillantemente Anna Ferrando). Ma incidenti e scivoloni a parte, l’avventura del catalogo Adelphi continua ancora, irresistibile e imprevedibile.
Prima con «Bobi» Balzen e Luciano Foà, poi con Roberto Calasso, l’Adelphi ha fin dall’inizio mirato a un pubblico di lettori colti, spregiudicati e anche un po’ compulsivi. Questi, col tempo, si sono raccolti, come pellegrini al bivacco, intorno al marchio e al catalogo Adelphi: non soltanto una casa editrice ma una specie di comunità – la comunità di chi vola di libro in libro, sfidando il buio e i preconcetti, seguendo piste di briciole di pane attraverso il bosco delle culture.