Robinson, 22 aprile 2023
Intervista a Mino Rebussi
Vive tra le colline di Bergamo. Qui ha instaurato il suo regno: qualche mucca, i vitelli, la casa che ha costruito con le sue mani e soprattutto il miele che produce “Un legame con la natura che non vorrei perdere per nessuna ragione al mondo”
In una bella mattina di sole e vento incontro Mino Rebussi. Vive a Carobbio degli Angeli tra le colline del bergamasco. Sono attratto dalla sua storia. Sono attratto dall’idea che lì, prospiciente alla casa, si prospetta l’ultima forma di matriarcato: un alveare formato da un centinaio di arnie. Scatole bellissime che il tempo e gli agenti atmosferici trasformano lievemente nei colori.
Sempre più sfumati, come gli anni che quest’uomo solido e gentile si è messo alle spalle.
“Matriarcato” è una parola desueta, indica un tempo remoto, forse leggendario, che resta inciso nel Dna di un sogno che fonde memoria e desiderio.
E immagina un altro modo di vivere. Mentre arranco su una salita erbosa penso al vecchio Bachofen e a una età, se mai sia esistita, della ginecocrazia che racconta. E mi colpisce la sua idea che per comprendere la genesi del matriarcato occorra richiamarsi alla vita delle api. Mino non conosce Bachofen, giustamente se ne frega. Lui l’esistenza non la immagina la vive. Eppure lo intriga una frase che gli riporto e cioè che l’ape rappresenta la potenza femminile della natura. E sorride dicendo che in quell’insetto l’altruismo e la crudeltà sono le armi per la sopravvivenza. Lo dice mentre la mano grossa e forte stringe la mia. Non riesco a immaginare la leggerezza con cui possa trattare le sue api. Ne possiede più di un milione. Attendono che passi il freddo per sciamare. Che estate sarà?
Ancora una volta siccicosa? Come pavental’apicoltore. Chissà. Intanto è un mondo parallelo unico e affascinante quello che ronza nella mia testa. Qui Mino ha instaurato il suo piccolo regno.
Qualche vacca in una stalla, alcuni vitelli; la casa che ha costruito con le sue mani, le api che cura e il miele che produce. Sono i segni tangibili della sua ricchezza. Mino ha compiuto 61 anni. Ha una moglie, due figli e parla delle api come fossero l’estensione naturale della sua famiglia.
Quando hai iniziato a occupartene?
«Ho cominciato negli anni Ottanta, aiutando un caro amico. Lui aveva le api. Poi arrivò la varroa, un parassita che le distrusse completamente. Fu stagione terribile. Trovammo quei minuscoli corpi, riversi nella terra o nelle celle con addosso gli acari.
Ricominciammo, partendo da due alveari. Ce li rubarono. Non era destino. Ci separammo. Vedi questa terra? La presi nel 1996. Non pensavo minimamente all’apicoltura. Poi un giorno vidi arrivare uno sciame che andò a ripararsi tra il vetro e le ante di una finestra. Mi parve il segno eloquente con cui la natura mi suggeriva di ricominciare».
Come definiresti il mondo delle api?
«É un organismo vivente dotato di straordinarie qualità. Non credo che in natura esista qualcosa di analogo. Sì, l’idea come tu suggerivi di un mondo dominato dal femminile nasconde qualcosa di mitologico, di talmente remoto che quasi lo considero alle origini della vita. Non solo la vita biologica ma altresì quella sociale».
Gli esperti parlano di un superorganismo. Cosa intendi?
«Una struttura viva capace di ricomprendere più cose e funzioni. È come la divisione del lavoro. Il contadino, gli animali, la terra. Ciascuno ha un compito. Anche le api non si sottraggono a questo schema. Studiarne il comportamento non è facile. Ma quando capisci il modo di operare puoi avvertire tutta la meraviglia del loro mondo».
È una meraviglia che gli scrittori hanno raccontato.
«Non ho molto tempo per leggere. Ma so che fin dall’antichità videro in questo esserino qualcosa che poteva insegnarci a sopravvivere».
Parlavi di un mondo altruista e crudele.
«Ad anni di distanza non ho ancora fatto l’abitudine al loro modo di vivere. Quando la mattina prestissimo esco da casa e mi avvio alla stalla o verso gli alveari ho come la sensazione di non pensare a nulla».
Che intendi?
«Sento che il mio corpo è vuoto, una cavità pronta ad accogliere i miracoli della natura. E ancor prima di essere totalmente sveglio mi pare di decifrare il senso di una identità smarrita e ritrovata».
È il rapporto con la natura.
«Un legame che non vorrei perdere per nessuna ragione al mondo. Mi chiedevi dell’altruismo e della crudeltà. Cos’è il miele se non la forma più alta con cui ci si avvicina al dono. Le api non donano, ma è come se lo facessero. È come se una forza sovrannaturale le spinga a compiere quel gesto».
Crudele perché?
«Perché sono indifferenti alla morte. La propria e delle altre».
Quanto vivono?
«Una quarantina di giorni. Questa loro vita breve contempla un’eccezione: la regina, che può raggiungere i quattro anni».
È vero che la sua funziona è solo riproduttiva? E per il resto è accudita e perfino imboccata come una neonata?
«È vero, ma senza di essa le api si estinguerebbero».
Perché dovrebbero estinguersi?
«Prive della regina le api operaie diverrebbero fucaiole. Deporrebbero sì le uova ma nascerebbero solo maschi. L’estinzione familiare ne è la conseguenza».
Come si diventa regina?
«Sono le api a decidere chi sarà regina. La nutrono con pappa reale. La imboccano, la curano, vegliano su di lei. Ne difendono la crescita fino al sacrificio delle loro vite. Quando sarà sufficientemente forte la regina di un alveare governerà sul proprio popolo composto da migliaia di api e da centinaia di maschi».
Governare in che senso?
«Fare in modo che la vita dell’alveare sia tranquilla e prospera. Il fatto che sia una sovrana si capisce anche dal comportamento delle operaie: non le danno mai la schiena e davanti a lei arretrano».
È il segno del rispetto.
«È chiara la condiscendenza verso la sovrana».
Una sovrana senza un sovrano.
«É una società dove il maschio è relegato solo a compiti riproduttivi».
Qual è il suo destino?
«Gramo, esposto alle leggi ferree della natura. Se il “raccolto” è scarso verrà fatto fuori. Più maschi ci sono è più debole sarà la vita nell’alveare, più esposta alla decadenza».
C’è un numero massimo di maschi?
«Un buon alveare ne conteggia abbondantemente sotto il migliaio. Un pessimo alveare ne conta dai quattro a cinquemila. Mangiano pigramente quello che le operaie raccolgono».
Vengono in mente i proci di Ulisse.
«Ma l’ape regina non è Penelope. Anche se può assomigliarle. I maschi le fanno la corte ma solo uno sarà il prescelto».
Come avviene l’accoppiamento?
«La regina uscirà vergine dall’arnia solo il giorno in cui si farà fecondare. A quel punto ha inizio il “volo nuziale” in una mattinata meravigliosa. Di ciò che accade fuori non sa nulla. E quando finalmente spicca il volo, un corteo di maschi l’accompagna. Salirà nel cielo terso fino a toccare altezze proibitive dove solo il più forte tra di essi riuscirà a raggiungerla per congiungersi. È un attimo dopo la sorte del maschio è segnata. Esso muore nel momento in cui la feconda. Se la regina tornerà a casa carica di sperma dopo una settimana comincerà a deporre le uova».
E da quel momento?
«Non uscirà più dall’arnia, dedicandosi alla riproduzione».
E quando invecchia o non ce la fa più?
«Verrà in un certo senso privata della corona.
Detronizzata e sostituita. Le altre api eleggeranno una nuova regina. Non è ammutinamento o ribellione. Ma il senso più profondo della continuità della specie. Ricordo che anni fa ebbi una grande regina. Ha vissuto tre anni e mezzo e non ho mai voluto sostituirla. Quando le altre api si sono accorte che non aveva più le forze necessarie l’hanno fattamorire e sono morte con essa».
Perché non hai voluto sostituirla?
«Per riconoscenza, per tutto il lavoro che in quell’arco di tempo aveva svolto».
Qual è la tua funzione?
«Sono come un albergatore che costruisce una struttura e aiuta a tenere in ordine la casa dove vivono. Quello dell’apicoltore è un mestiere antichissimo. Ho imparato a conoscere abbastanza il loro linguaggio.
Devo occuparmi delle colonie, controllare che non si ammalino, inserire nuovi nuclei quando le famiglie cominciano a indebolirsi, somministrare sciroppo di zucchero per le api nutrici che non hanno sufficiente polline, trasferire le arnie se si decide di fare una sciamatura nomade e poi c’è la raccolta del miele.
Bisogna amare queste famiglie di api per occuparsene, sapendo che ciascuna ha la propria storia che va raccontata con rispetto e meraviglia».
E la tua storia qual è?
«Sono figlio di mezzadri. A 15 anni, finite le scuole dell’obbligo, sono andato a lavorare. Il giorno in un cantiere edile e la sera nei campi per aiutare la famiglia. Fino a 24 anni. Poi ho mollato l’edilizia e sono diventato imprenditore agricolo. Qualche mucca, un frutteto e la casa dove vivo l’ho fatta con le mie mani. Ho sempre amato fare tante cose. Provo ad essere autosufficiente. Ho una moglie, due figli euna vita a trecentosessanta gradi».
È dura?
«So che dietro a tutto quello che faccio c’è una grande fatica. Non posso dire: domattina non mi alzerò. So che la sveglia è alla quattro e mezza. Eppure, malgrado i sacrifici, mi sento ripagato da ciò che faccio. A 61 anni mi sembra di essere più motivato di prima».
Questa terra è la tua terra.
«Lo è per tutto quello che mi dona. Ma va rispettata. Non puoi violentarla, sfruttarla in modo insensato.
Devi essere consapevole. Ma non so se gli altri lo capiscono».
Gli altri chi?
«Coloro che non sanno cosa sia davvero questo lavoro. Per la società moderna siamo invisibili. Si entra in un negozio, si vede il cibo in vetrina o sugli scaffali e nessuno si preoccupa di chi lo ha prodotto. È il supermercato che dà da mangiare non l’apicoltore, il contadino, l’agricoltore».
La situazione sta un po’ cambiando.
«Forse è diversa dagli anni cinquanta e sessanta. Qui intorno c’erano delle fabbriche. C’era la Pirelli, c’era la Falck e la gente faceva la fila per entrare. È arrivato il benessere, ma anche tanto sconvolgimento. Ne ho visti di operai piangere. Mio padre si rifiutò di lavorare in fabbrica. E quel gesto, allora temerario, è diventato il mio gesto. La mia è la difesa di un mondo minacciatodal progresso. E so anche che il progresso come dice la televisione ha migliorato il nostro tenore di vita. Ma che importa se poi sarò costretto a vivere in uno di quei casermoni che circondano le nostre città, pieno di desideri che non sono più i miei desideri».
Che cosa o chi ti dà la forza di resistere?
«I miei animali fanno parte della mia vita. Ho quattro grosse mucche da latte, tre vitelli. È faticoso governarli. Ma intanto resisto. Non riuscirei a vivere senza la semplicità di queste emozioni. Ora è il tempo della sciamatura. Devi sentire la forza di quel momento. L’energia che scaturisce da queste giornate che annunciano la gioia».
Ma la primavera tarda ad arrivare.
«Lo so. So che siamo nel bel mezzo di sconvolgimenti climatici, che le stagioni non ci sono più. Eppure mi commuove sentire ancora il ronzio di questi esseri minuscoli che si preparano a invadere la fioritura.
Torneranno carichi di bottino, di ricchezza che doneranno a noi. A noi che dovremmo fare di tutto per meritarlo e invece siamo lì a pensare alle guerre, al prodotto lordo, all’intelligenza artificiale.
Mi chiedo cosa mi accadrà quando non avrò più la forza di amare e rispettare ciò che ho imparato ad amare e rispettare. Non lo so. O forse sì. Sarò in attesa della fine».