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 2023  aprile 22 Sabato calendario

Come eravamo in bianco e nero

A Palazzo Grassi gli scatti dell’archivio Condé Nast, entrati nella collezione di François Pinault, raccontano settant’anni di personaggi e cambiamenti
La prima fotografia, in questo viaggio delle immagini nel tempo, non fu neppure pubblicata. Era un ritratto di Mary Walker, dottoressa, combattente, antischiavista e femminista, “la prima donna che indossò i pantaloni in pubblico” e per questo fu arrestata. Scattata nel 1911 da Paul Thompson, è stata ritrovata negli archivi diVanity Fair,che però non osò mai metterla in pagina. Non era ancora la sua ora. Sessant’anni dopo la rivista cugina, Vogue, pubblicò le valchirie dominatrici di Helmut Newton. Era giunta la loro ora. Così è la vita delle immagini: per dirla col Qoèlet, c’è un tempo per ogni fotografia. E questa volta la cronologia, snobbata ultimamente dai curatori di mostre, diventa parlante. In Chronorama, mostra- monstre di Palazzo Grassi (400immagini: prendetevi tempo, ne avete fino al 7 gennaio 2024), gli anni e perfino i giorni rintoccano, passo dopo passo, dagli anni Dieci ai Settanta del secolo trascorso, e le immagini cambiano assieme alla storia.
Una catena di felici costrizioni rende così eloquente questo maestoso incedere di opere dei più grandi fotografi del Novecento, Cecil Beaton e André Kertész, Diane Arbus e Berenice Abbott (ed anche molti italiani: Ugo Mulas, Gian Paolo Barbieri) e quelli che nomineremo più avanti. La prima: vengono tutte dallo stesso imponente archivio, quello del gruppo editoriale Condé Nast, archivio recentemente acquisito quasi per intero dal miliardario collezionista François Pinault. La seconda: a parte alcune splendide illustrazioni litografiche per le prime copertine, e qualche rara fotocolor, sono esposte solo fotografie in bianco e nero, stampe originali, d’epoca, come si dice: vintage; e questo più per un motivo collezionistico che per scelta curatoriale: quando infatti la fotografia a colori esploderà sulle pagine patinate, i fotografi consegneranno non più stampe accuratamente elaborate in camera oscura, ma (fino all’irruzione del digitale) diapositive passate direttamente alla tipografia: non esiste, insomma, un “originale” a colori che si possa esporre con tutta la forza della sua aura.
Abbiamo dunque settant’anni di riviste di moda, ma visti attraverso un filtro monocromo, e questa potrebbe apparire una stranezza, perché la moda vive di colori, ma non lo è: di fatto «la moda e le riviste di moda sono due cose diverse», ebbe a dire un visionario come Peter Lindbergh. È una dialettica, quella fra il vestito reale e il vestito raffigurato, che ha sempre avuto aspetti misteriosi, esoterici, difficili da comprendere. Perfino Barthes se ne ritrasse con diffidenza, e preferì costruire la sua imponente decifrazione del Sistema della moda leggendo i testi delle riviste e non guardando le figure, che probabilmente lo lasciavano perplesso.
E rincorrendo gli anni in queste sale capiamo perché. Giustamente il curatore Matthieu Humery non ha voluto usare la parola moda nei titoli della mostra: ci saremmo aspettati bellissime donne fasciate da meravigliosi tessuti, e ne abbiamo; ma abbiamo anche molto altro. Ritratti di celebrità e di ignoti. Immagini crude della storia (i reportage di Lee Miller dalla seconda guerra mondiale), paesaggi, architettura, oggetti. Sì, la lucentezza delle pagine patinate è lo specchio di un secolo, uno specchio parziale, forse deformante, ma proprio per questo fertile e straniante. Erano, le riviste fondate o rifondate dall’editore Condé Montrose Nast iniziando nel 1913 con l’ammiragliaVogue, una specie di club cartaceo per le élite occidentali; lo sguardo che le pagine gettavano sul mondo era quello dei ceti dominanti. Ai grandi fotografi scritturati per quell’Olimpo di classe, generoso e remunerativo, l’editore chiedeva tuttavia di liberare la fantasia di un genere fotografico ibrido, a metà strada fra creatività e stereotipo, tra arte e merce, tra desiderio e realtà.
Il dosaggio del cocktail però cambia di decennio in decennio. Negli anni Dieci, il mondo della moda è ancora un salotto di nobildonne che nelle fotografie del barone (ci teneva a sottolinearlo) Adolf De Mayer hanno l’aria di concedere il loro prestigio agli abiti che indossano, posando su set che sembrano ( dirà il dissacratore Irving Penn) “acquari retroilluminati”. Ma già dieci anni dopo ecco ruggire l’epoca del Grande Gatsby, i corpi si agitano, arrivano il Ballets Russes e si scatena Josephine Baker, insomma entrano in scena i corpi professionali: prima le star di Hollywood, poi le modelle eteree, donne irraggiungibili, frustranti tantalizzatrici dell’eros come Marion Morehouse, forse la prima top model della storia, o come Lisa Fonssagrives, la più algida e affascinante. E poi gli anni Trenta delle crisi e delle grandi paure, e i Quaranta della distruzione e della ricostruzione, lasciano il segno nei forti contrasti dei ritratti di Edward Steichen, nei simboli ambigui di Erwin Blumenfeld e nei manichini inquietanti di
Horst P. Horst. Negli anni Cinquanta degli scontri razziali i neri quasi scompaiono dalle pagine delle riviste, ma nei Sessanta della contestazione al sistema si prendono la rivincita, ed è Black Is Beautiful.
Forse è vero che ogni epoca sogna, o teme, la successiva. Così di certo è per l’erotismo, sempre presente e mai proclamato, che esplode, appunto, con Newton e i suoi discepoli nei Settanta; e il pubblico conservatore delle riviste non si scandalizza, perché dopo quella arruffata degli hippie è giunta l’ora della rivoluzione sessuale glamour dei ricchi.
Dunque: Chronorama è una storia parallela (reinterpretata in alcune sale da giovani artisti contemporanei), un contrappunto visuale, una camera eco degli eventi e della mentalità di un settantennio. Le battaglie di Condé Nast con la concorrenza, per dire, sembrano la parodia cartacea della guerra fredda, con duelli titanici fra generali come Alexander Liberman diVogue contro Alexej Brodovitch diHarper’s, quando Vogue strappò alla rivale il suo campione più glorioso, Richard Avedon.
Si può dire, in definitiva, che la storia delle riviste di moda raccontata dalle loro fotografie è anche, forse soprattutto, la storia di una pratica pubblica della visione che, decennio dopo decennio, ha rimodellato le idee della gente comune su cosa siano il corpo, l’identità, la persona e le loro relazioni con la storia.