Robinson, 22 aprile 2023
Rileggere Davide Lajolo
Partigiano, ma dopo una militanza fascista, piemontese come l’autore de “La luna e i falò”, ne diventa l’alter ego scrivendo la sua biografia e rispondendo alla domanda di Hemingway: “Perché si è suicidato?”
Da una trincea all’altra, non si è mai sottratto a nessuna barricata. La guerra civile in Spagna da fascista, i fronti albanese, greco, jugoslavo da capitano; poi, caduto Mussolini, diventa partigiano. All’inizio è visto con sospetto, gli ispettori politici lo interrogano. Ma presto vestirà i panni del comandante “Ulisse”, capo di stato maggiore della VIII e IX divisione “Garibaldi”. Tuttavia, da alto esponente della Resistenza, difenderà un giovane ufficiale di Salò, senza però riuscire a evitarne la fucilazione. Ad Asti i nazifascisti affiggono manifesti con una taglia sulla sua testa. Nel dopoguerra, lo perseguitano invece i tribunali alleati, colpevole di aver difeso sull’Unità i partigiani del Vercellese. Di quel giornale ( dove entra «quando ancora i cecchini sparavano dai tetti di Torino») diventerà direttore dell’edizione settentrionale, prima di essere deputato dal ’ 58 al ’ 72. Criticherà Beppe Fenoglio, per aver dato una versione “picaresca” della guerra civile, ma poi lo definirà «un guerriero di Cromwell». Quando nel 1963 licenzierà il suo romanzo biografico, lo titoleràIl voltagabbana.
Ma sarà l’incontro con Pavese a fare da spartiacque alla sua vita, Come fossero “gemelli diversi”. Nel 1960 Davide Lajolo aveva scritto Il vizio assurdo, storia di Cesare Pavese, un longseller più volte ristampato in tutto il mondo. Forse soltanto nel 1984, l’anno della sua morte, dopo essere ritornato con nuovi scritti su quel libro dedicato allo scrittore suicida, Lajolo si rese conto di aver narrato, tramite l’amico, la biografia di una nazione. O, se si preferisce, l’autobiografia della “generazione bruciata”, che aveva pagato un prezzo altissimo ai piedi dell’altare della patria.
«Perché Pavese si è suicidato?» gli chiese a bruciapelo Ernest Hemingway, poche settimane prima di farla finita a sua volta con una fucilata. Goffredo Fofi ha scritto che il suicidio di Pavese (27 agosto 1950, due mesi dopo aver vinto il premio Strega) ebbe lo stesso effetto della tragedia di Superga ( 4 maggio 1949, si schianta l’aereo con a bordo la squadra del Grande Torino).
Più che affinità elettiva, tra Lajolo e Pavese si trattò di incontro fatale. Lo scrittore gli venne presentato nella redazione de L’Unità da Fernanda Pivano, la giovane allieva di cui Pavese fu innamorato, che a sua volta aveva conosciuto Cesare in piscina, tramite Norberto Bobbio, detto “Bindi” dagli amici. Da quel colloquio, Pavese andrà a trovare Lajolo ogni giorno. E ogni notte, alle tre, dopo la chiusura del giornale, batteranno a piedi le strade di Torino. Grazie al suo lavoro, e ai libri che ha scritto (da ricordare, oltre aIl voltagabbana, almeno Finestre aperte a Botteghe Oscure”
del ’ 75 eVeder l’erba dalla parte delle radici del ’ 77) Lajolo aveva intrecciato rapporti intimi con Sartre e Neruda, Eluard e Picasso, Ungaretti e Montale, Pasolini e Calvino. Ma allora, si è chiesto lui stesso, perché proprio Pavese?
Il vizio assurdo di Lajolo è una storia collettiva. Si sviluppa fin dagli anni del liceo torinese “Massimo D’Azeglio”, frequentato dall’autore de La luna e i falò. A bordo di quel tram numero sette, che passa dal Lingotto e va verso il Po, sale realmente o idealmente un’intera generazione. Ci sono Leone Ginzburg, Massimo Mila, Carlo Levi, Giacomo Debenedetti, Vittorio Foà, Giaime Pintor, ai quali si uniranno nel corso della narrazione Argan, Chabod, Treves, Olivetti, Geymonat, Einaudi, Vittorini, Calvino, Bobbio, Cecchi, Croce, Fortunato, come «in un gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il maestro di questo gruppo, descritto da Lajolo senza retorica, è Augusto Monti, amico di Gobetti e Gramsci, che in un romanzo, I sansossi, offrì un ritratto ancora attuale del paese: gli italiani sono «spensierati geniali», «arcadici e bovaristi di campagna», uomini «dalle vaste aspirazioni e dalle scarse possibilità». Ma poi, «quando nei pasticci c’era l’Italia», dovevano intervenire gli «oculati, pignoli, severi, i Quintino Sella con le loro tasse sul macinato, i fanatici del bilancio in pareggio».
Tanto è stato scritto su Pavese ele donne, per trovare una spiegazione al suicidio. Meno, però, si è sottolineato quanto Lajolo racconti nel libro dell’irruzione in scena, nell’Italia di allora, di figure femminili indipendenti, autosufficienti, forti, volitive. Sono come la pavesianaArtemide, signora delle belve.
Solo da esse ( Tina Pizzardo, «la donna dalla voce rauca», Pivano, l’americana Constance) Pavese viene ipnotizzato. Ma sono anche donne che mandano a gambe all’aria il sistema patriarcale e, con esso, la figura del “maschio latino”, riducendolo all’impotenza. Ampie tracce di questo terremoto registra Lajolo, con un onesto piglio da cronista.
Infine, le radici. «Terra, bosco, collina, pietra, padre. È questo che mi lega a Pavese» dirà Lajolo. L’autore de Il mestiere di vivere viene dalle Langhe. Lui, Lajolo, da Vinchio, «la più alta collina del basso Monferrato». Li accomunano fiumi, vigne, boschi. Da qui Lajolo comprenderà in anticipo che Pavese – primo traduttore del Moby Dick di Melville – attraverso il rapporto con la natura approderà al mito, e aprirà per Einaudi la prima collana italiana dedicata a questi studi, pubblicando Il ramo d’oro di Frazer. Decadentismo, si disse allora. Al contrario, per Lajolo il “suo” Pavese è stato pioniere di una nuova cultura.