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 2023  aprile 22 Sabato calendario

Essere il figlio di Oscar Wilde

Wilde è stato un padre di famiglia per pochi anni, prima di essere perseguitato dalla giustizia Qui il figlio Vyvyan rievoca i momenti felici
È stato solo in quei primi anni che sono stato con mio padre, dopo il 1895 non l’ho mai più visto. La maggior parte dei ragazzi adora il proprio padre e noi adoravamo il nostro e, come tutti i bravi papà, lui per noi due era un eroe. Era alto e distinto e, ai nostri occhi acritici, era tanto bello. In lui non c’era niente del mostro che alcune persone, che non lo hanno mai conosciuto e nemmeno mai visto, hanno cercato di farlo diventare. Era un vero compagno per noi e abbiamo sempre aspettato con ansia le sue frequenti visite in cameretta. Molti genitori, all’epoca, erano troppo severi con i loro bambini, insistevano come tromboni pretendendo un rispetto che magari non meritavano. Mio padre era diverso: nella sua natura c’era così tanto del fanciullo che si divertiva a giocare con i nostri giocattoli. Si metteva a quattro zampe sul pavimento della cameretta e si trasformava una volta in un leone, un’altra volta in un lupo o ancora in un cavallo, senza curarsi del suo aspetto solitamente immacolato.
Era sempre molto entusiasta di giocare con noi. Un giorno arrivò con un carretto-giocattolo del latte trainato da un cavallo con una criniera vera: tutta la bardatura si poteva sganciare e le zangole sul carretto potevano essere rimosse e aperte. Quando mio padre scoprì questa cosa, corse immediatamente giù e tornò con una brocca di latte con cui riempì le zangole, poi ci mettemmo tutti a correre intorno al tavolo della cameretta versando latte dappertutto, finché non arrivò la tata a mettere fine al gioco. Come tutti i papà, lui aggiustava i nostri giochi, passò un intero pomeriggio a riparare il fortino di legno che era andato in pezzi a causa delle varie battaglie e, quando finì, insistette che tutti in casa venissero a vedere come era riuscito bene e lo elogiassero. Ha giocato molto con noi anche nella sala da pranzo, che era in qualche modo più adatta a giocare rispetto alla cameretta, perché c’erano più sedie, tavoli e credenze da schivare e più spazio per arrampicarsi su papà.
Quando si stancava di giocare, ci teneva quieti raccontandoci delle favole o delle storie avventurose, di cui aveva una scorta infinita. Era un ammiratore di Jules Verne, di Stevenson e del Kipling più fantasioso. L’ultimo regalo che mi fece fuIl libro della giungla e mi aveva già regalato L’Isola del Tesoro eIl giro del mondo in 80 giornidi Jules Verne, che fu il primo libro che lessi tutto da solo. Ci raccontava tutte le favole che scriveva, adattandole alle nostre giovani menti, e molte altre. Ce n’era una che parlava di alcune fate che vivevano in grandibottiglie di acqua colorata, che le farmacie mettevano nelle loro vetrine con delle luci dietro per fargli assumere tutte forme diverse. Quando faceva notte e il negozio si svuotava, le fate uscivano dalle loro bottiglie e giocavano, danzavano e preparavano le pillole. Una volta, Cyril chiese a nostro padre come mai avesse le lacrime agli occhi quando ci raccontava la favola del Gigante egoistae lui rispose che le cose belle lo facevano sempre piangere. Ci parlava della sua casa natale a Moytura, dove un giorno ci avrebbe portato e della «grande carpa malinconica» nel lago Corrib, che non si muoveva mai dal fondo finché lui non la chiamava cantando le canzoni irlandesi imparate da suo padre, e che ci avrebbe cantato. Secondo me, lui non cantava molto bene, ma per noi aveva la voce più bella del mondo. C’era una canzone in particolare chiamata Athá mé in mu codladh, agus ná dúishe mé che significa “Sto dormendo, non svegliatemi” che ritrovai da adulto quando tentai di imparare la lingua irlandese da autodidatta. E inventava per noi poesie in prosa di cui non capivamo sempre il significato, ma che ci lasciavano sempre incantati. Molte di queste non furono mai pubblicate, ma lui ne creava in continuazione. Quando sono diventato maggiorenne, ho incontrato una signora che aveva conosciuto mio padre quando era ragazza. Una volta, dopo che lui aveva affascinato lei e alcuni suoi amici con le sue storie, decise di correre a casa e di trascriverle esattamente come lui le aveva raccontate, per quanto poteva ricordare (...). Mio padre viveva nel suo mondo, un mondo artificiale, forse, ma in cui le uniche cose che contavano davvero erano l’arte e la bellezza in tutte le loro forme. Questo gli conferì quell’orrore della convenzionalità che alla fine lo distrusse. Forse trascorse i suoi momenti migliori con noi al mare. Era un grande nuotatore, si divertiva tantissimo ad andare in barca e a pescare e, quando non faceva molto freddo, ci portava con lui, anche se non credo che noi la prendessimo molto bene. Io ero troppo preoccupato per i pesci che si agitavano e guizzavano sulle assi della barca. Preferivo aiutare mio padre a costruire castelli di sabbia: un’arte in cui eccelleva. Erano castelli lunghi e di forma irregolare, con fossati, tunnel, torri e bastioni. Quando finiva di costruirne uno, di solito tirava fuori dalla tasca alcuni soldatini di piombo per presidiare le mura.