Tuttolibri, 22 aprile 2023
Intervista a Davide Toffolo
Insetti raffigurati con precisione scientifica, pappagallini in pantofole, un minotauro malinconico che suona il guitarrón da mariachi: sono solo alcune delle creature che popolano il Bestiario firmato da Davide Toffolo, artista ben noto sia nel mondo del fumetto che in quello della musica. Sfogliare il volume significa assistere a una sfilata eterogenea di animali provenienti da paesaggi reali ma anche dalla memoria e dall’immaginazione, disegnati nel corso di tre decenni con tecniche e stili differenti, accompagnati da testi che più che raccontare ogni soggetto servono a contestualizzarne la presenza nella mappa emozionale dell’autore. Stravolgendo completamente il modello medievale di bestiario, che presenta gli animali come simboli di vizi o virtù universali, il volume di Toffolo appare a chi lo guarda come un invito, poetico ma anche divertito, a riscoprire la dimensione soggettiva che l’osservazione attenta e disinteressata della natura può offrirci.
Del resto rimodellare l’esistente in una forma personale è il senso ultimo del lavoro di questo autore, che ha sempre rivendicato nel punk, da lui inteso come libertà di «immaginare il mondo intorno diverso», la radice più autentica della sua creatività, tanto nella musica quanto nei fumetti. E non è un caso, visto che Toffolo, nato e cresciuto a Pordenone, da adolescente prese parte a quel movimento d’ispirazione punk noto come The Great Complotto, che fece della città friulana una delle scene musicali più interessanti dell’Italia degli anni 80. A questa sensibilità si aggiunsero poi gli stimoli dell’ambiente fumettistico di Bologna, dove l’autore si trasferì per frequentare l’università: qui fu allievo di Pazienza, Igort e Mattotti nella scuola di fumetto Zio Feininger e divenne uno degli animatori di alcune riviste indipendenti che anticiparono molti elementi ancora oggi distintivi del fumetto italiano. Facendo tesoro di tutte queste esperienze, nella seconda metà degli anni 90 Toffolo avviò la sua duplice carriera di fumettista e musicista con due progetti strettamente collegati tra loro: la serie a fumetti Cinque allegri ragazzi morti, incentrata su un gruppo di adolescenti non-morti destinati a vivere in eterno i conflitti e i dolori di quell’età di transizione, e la band dei Tre Allegri Ragazzi Morti (fondata con Luca Masseroni ed Enrico Molteni) che divenne una delle più seguite nell’ambiente indie punk-rock dell’epoca e di cui Toffolo ha definito anche l’identità visiva, a partire dalle copertine degli album fino ai travestimenti indossati durante i concerti. Come fumettista, Toffolo è stato uno dei primi a esplorare le varie possibilità del formato graphic novel, realizzando volumi di diverso tono e argomento: dalle biografie più o meno romanzate di grandi protagonisti della cultura del Novecento (Carnera,la montagna che cammina, Pasolini, Come rubare un Magnus) al ritratto dell’unico gorilla albino della storia (Il re bianco), fino al diario di viaggio alla scoperta delle tradizioni musicali colombiane (Il cammino della cumbia) e a un’autobiografia in due parti (Graphic novel is dead e Graphic novel is back). Famoso per la scelta di nascondere il volto dietro una maschera da teschio – abitudine cui non ha rinunciato neanche calcando l’ingessatissimo palco dell’Ariston a Sanremo 2021 come ospite degli Extraliscio – nel corso degli anni Toffolo ha mostrato una coerenza e una consapevolezza della propria identità artistica non comuni. E nell’intervista che segue non fa eccezione, presentandosi come un autore ormai maturo ma ancora inquieto e sempre, tenacemente, fedele a sé stesso.
I bestiari medievali illustravano la natura degli animali per trarne un insegnamento morale. Che cosa le ha insegnato lavorare al suo Bestiario?
«Gli animali e anche i libri sugli animali sono sempre stati la mia passione. Questo mio Bestiario, che raccoglie disegni realizzati nell’arco di 30 anni circa, è stato un viaggio nel tempo, nelle diverse tecniche che uso dall’acquerello alla penna a sfera, nelle storie che a questi animali sono collegate. È un viaggio naturalistico, narrativo ed emotivo per me ma non posso negare che nel farlo avevo in testa il Bestiario di Andrea Pazienza. Lo dico ora e non lo dico più».
Il Bestiario si chiude così: «Mi chiamo Davide, faccio fumetti e sono una rock star italiana. Ma avrei voluto diventare un naturalista». C’è una sfumatura di rimpianto in questa affermazione?
«Forse sì, ma anche un’affermazione del mio essere. Sono un apprendista naturalista che è diventato altro. Massimo Zamboni, che è uscito in questi giorni con il suo meraviglioso Bestiario selvatico, definisce quelli come noi “Naturalisti di ritorno”. Da bambino ho imparato a osservare gli animali, a capire come sono fatti, ho capito da loro il valore della diversità ed è stata un’esperienza formativa importante. Disegnarli è diventato il mio modo per riconoscere come sono fatti, per decifrare il mondo. Con questo libro ritorno ai lettori questa conoscenza».
Degli animali del Bestiario ce n’è uno che preferisce oppure uno che non è presente e vorrebbe aggiungere?
«In questo libro sono raccontati 60 fra animali selvatici, domestici e immaginari, accompagnati ciascuno da una piccola storia, dei frammenti narrativi che sono la cosa più simile alla poesia che io abbia mai scritto. Sono rimasti fuori da questa selezione alcuni animali che sono stati protagonisti di altri miei libri, per esempio le nutrie, che nell’ultimo capitolo dei Cinque allegri ragazzi morti mi sono servite per raccontare il degrado di una Milano distopica. Un animale che invece ho voluto nel Bestiario è Tripod, il gatto con tre zampe che ho conosciuto nel campo dei Mutoid Waste Company, un gruppo di artisti nomadi che trent’anni fa si sono fermati in Romagna. Mancano gli ofidi, le serpi, i rettili senza zampe, che in realtà conosco bene. Questo è un libro dalla parte degli animali, si capisce a prima vista».
A ben vedere, gli animali sono un bel po’ presenti nel suo lavoro. Per esempio, c’è un gorilla che ha dato il nome a diversi suoi progetti.
«Era l’unico esemplare di gorilla albino a noi noto, chiamato Copito de Nieve, ovvero Fiocco di Neve, e ospite dello zoo di Barcellona. L’ho incontrato per la prima volta leggendo Palomar di Italo Calvino, dove appare al protagonista come una creatura che non è né umana né animale, e da allora è stato molto presente nel mio immaginario: ho chiamato “Gorilla Bianco” la scuola di fumetto che ho fondato tanti anni fa a Pordenone, è stato l’ispirazione per la graphic novel Il re bianco e per un album della mia band, Il sogno del gorilla bianco. Questo animale mi ha aiutato a individuare un punto di vista narrativo non antropocentrico, mi è servito a contestualizzare la vita umana all’interno di un insieme più grande, la natura».
Un punto di vista meno antropocentrico è quanto mai necessario oggi che il cambiamento climatico è una realtà.
«Ricordo ancora, avrò avuto 5 o 6 anni, il giorno in cui trovai lo stagno dove andavo sempre a osservare gli animali completamente privo di segni di vita: le alghe, cresciute a dismisura, non consentivano più il passaggio di luce e ossigeno e avevano causato la morte di tutte le creature viventi. Capii che era successo a causa dell’azoto rilasciato dai detersivi per piatti i cui scarichi finivano lì. Davanti a quel microcosmo distrutto ho avuto l’immagine violentissima delle conseguenze che possono avere sulla natura le azioni semplici che facciamo tutti i giorni. Fu uno shock molto forte per me».
Ripercorrendo il suo lavoro, è evidente come disegnare fumetti e fare musica siano per lei attività non solo collegate ma proprio interdipendenti. Come hanno dialogato queste due carriere nel tempo e come è riuscito a conciliarle?
«Sono stato fortunato. Se sono riuscito ad avere una credibilità anche nella musica è perché ho condiviso l’esperienza dei Tre Allegri Ragazzi Morti con altre due persone che ci credevano come ci credevo io, Luca Masseroni ed Enrico Molteni. La musica e il fumetto sono due lati della mia creatività che hanno sempre dialogato, in una modalità complessa che nel tempo è diventata ancora più articolata. Per me è come avere un doppio superpotere, anche perché quello del disegnatore è un lavoro che si svolge in solitudine, mentre il musicista si esibisce in pubblico. In questi anni ho cercato di mettere insieme queste due dimensioni creando spettacoli live a partire dai miei libri. Anche per il Bestiario sarà così».
Il concetto di “allegro ragazzo morto” suggerisce l’idea di un’adolescenza cristallizzata in eterno. È così?
«L’allegro ragazzo morto è una sorta di adolescente assoluto. Non tanto cristallizzato in una forma, ma fermo in un momento della vita in cui bisogna fare delle scelte. Non è la sindrome di Peter Pan, per cui quando sei bambino è tutto bello; è una cosa diversa: è un periodo inquieto come quello dell’adolescente, una condizione in perenne divenire in cui non si trova pace. In questa direzione si può capire sia la poetica della band Tre Allegri Ragazzi Morti sia ovviamente quella degli allegri ragazzi morti dei fumetti».
Lei si mostra in pubblico indossando una maschera, mentre nei fumetti autobiografici si disegna a volto scoperto. Come mai?
«Quando mi esibisco sento di voler celare la mia identità per ribadire che nella dimensione di “oggetto in vendita” propria del musicista si può anche scegliere cosa mostrare e cosa no. È il mio modo per presentarmi al pubblico e per dare più forza a quello che voglio dire – del resto, si dice “Datemi una maschera e dirò la verità”. Nei fumetti mi disegno senza maschera, è vero, ma anche il mio personaggio disegnato in qualche modo è una versione parziale di me, non è una foto, è ancora una rappresentazione».
Per molti lettori graphic novel vuol dire semplicemente “libro a fumetti”, ma forse per lei questo formato rappresenta qualcosa di più importante, visto che ha dato il titolo alle sue opere più autobiografiche, “Graphic novel is dead” e “Graphic novel is back”.
«Per molto tempo il fumetto è stato visto come un linguaggio bambino, adatto solo a raccontare storie di avventura per ragazzi. La graphic novel gli ha dato la possibilità di emanciparsi e di poter raccontare qualsiasi tipo di storia. L’affermazione della graphic novel è stata una “battaglia”, combattuta da autori ed editori e che ha portato alla creazione di opere capaci di raccontare la realtà. Io sono stato tra gli autori in trincea nel momento in cui il concetto di graphic novel si è piano piano definito e diffuso. Graphic novel is dead e Graphic novel is back sono un riflesso della libertà creativa consentita da questo formato: contengono infatti tavole autoconclusive montate tra loro in modo da suggerire una storia più lunga, un gioco che non sarebbe stato possibile all’interno di una concezione di fumetto più tradizionale».
Ha studiato nella scuola di fumetto Zio Feininger e ha anche partecipato attivamente a due riviste storiche, Dinamite e Mondo Naif. Sono state esperienze che appartengono a un momento importante della storia del fumetto italiano, anche se oggi se n’è persa un po’ la memoria. Ce le vuole raccontare?
«Zio Feininger era la scuola di fumetti bolognese in cui negli anni 80 insegnavano dei giovanissimi Andrea Pazienza, Igort e Lorenzo Mattotti. Le riviste Dinamite e Mondo Naif sono nate sempre a Bologna negli anni 90 e sono state il luogo in cui vari giovani autori come me, come Vanna Vinci, Otto Gabos e i Kappa Boys, cercavano di aprire strade nuove al fumetto d’autore italiano. L’eredità della scuola Zio Feininger è stata poi raccolta dall’Accademia di Belle Arti di Bologna, che ha formato molte nuove firme del fumetto, mentre il lavoro fatto con le riviste ha preparato il campo al successo del graphic novel. Insomma, quella era una realtà molto diversa dal panorama attuale, ma ha gettato i semi del fumetto italiano che conosciamo oggi».
Nel suo lavoro, sia di fumettista che di musicista, ha seguito varie direzioni di ricerca restando sempre coerente. Perché è importante secondo lei non restare fermi e dare di volta in volta spazio a ciò che si ritiene interessante?
«Ogni artista vive la creatività in modo diverso. Se molti sentono il bisogno di stabilità, l’inquietudine che fa parte della mia personalità mi ha invece spinto a un approccio libertario verso le cose che faccio. Quando lavoro devo sentirmi nella condizione di esprimermi liberamente, di raccontare cose non convenzionali e di aggiungere a quello che produco una dimensione di socialità. Questa libertà mi consente anche di ribadire la scelta di non fare più fumetti, almeno per un po’. Fare fumetti è infatti un lavoro che richiede un tipo di sforzo che al momento non penso di poter affrontare, soprattutto in vista del prossimo anno in cui festeggeremo l’anniversario dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Questo però non significa che smetterò di disegnare, perché disegnare fa parte della mia vita». —