La Stampa, 22 aprile 2023
Intervista a Valentino Rossi
Le t-shirt con il numero 46, il giallo dei cappellini e al centro Valentino Rossi. Il paddock di Monza per il GT World Challenge Europe ricorda quello della MotoGp degli ultimi 25 anni. Una follia collettiva nel nome del Dottore, alla sua seconda vita in auto. Un ritorno alle origini.
«Avevo iniziato con i kart, a 6 anni, una gara in un circuito cittadino, in un piazzale in mezzo alle balle di paglia – ricorda con un sorriso -. Era il 1985 ed ero arrivato 5° o 6°».
È allora vicino a festeggiare i 40 anni di carriera, dove trova la voglia di continuare a correre?
«È la cosa che mi piace di più, quella dove mi trovo meglio, in cui sono più bravo. Mi capita di avere una giornata no: vado ad allenarmi e sto subito meglio. Per farlo, però, devi avere un obiettivo perché rende tutto più bello. Mi dà gusto guidare».
Il suo prossimo obiettivo è la 24 Ore di Le Mans. Sarà la sua ultima sfida sportiva?
«Non mi piace definirla così, spero di no (ride). Ho sempre avuto in mente di correre in macchina dopo le moto, ora bisogna capire dove potrò arrivare, quello che mi frega è che sono vecchio (ride). È una bella sfida, il team WRT per cui corro mi ricorda una squadra di MotoGp e Bmw crede nel mio progetto. Farò un test con l’Hypercar, dobbiamo solo decidere quando e dove».
Anche qui a Monza la gente fa quasi a pugni per un autografo o una foto con lei. A Tavullia hanno realizzato un murale con lei nei panni di David Bowie. Che effetto fa essere un mito?
«È una grande soddisfazione, vuol dire che ho fatto qualcosa di speciale e che va oltre a essere un pilota. Ancora oggi la gente mi chiede quando tornerò a correre in moto e ci rimangono male se dico loro che ho quasi 50 anni, allora rispondo che lo farò il prossimo anno (ride). È un bell’impegno da gestire, ma ho capito che non cambierà mai, nemmeno quando smetterò di correre».
Jacobs ci aveva detto che lei è il suo riferimento per la popolarità che ha raggiunto e per come l’ha gestita.
«Ci sono anche tanti vantaggi, in Italia sono portato su un palmo di mano e la gente mi vuole bene. Ho sempre cercato di rimanere una persona normale, quello che sono. Serve organizzazione, modificare delle scelte di vita, a volte è pesante, ma non è qualcosa che puoi scegliere. Non lo puoi cambiare, a meno di fare come Battisti o Mina e chiudersi in casa».
Si sente una sorta di “ultimo dei Mohicani”? Uno sportivo nato senza computer e arrivato nell’era dei social, anche se con le sue gag aveva comunque un’eco mondiale.
«La mia è stata una delle ultime generazioni che si ritrovava al bar, andava in giro con i motorini truccati, faceva le macchinate per andare al cinema, c’erano le compagnie. Dopo cena, uscivi di casa e andavi al punto di ritrovo, senza chiamare nessuno. È una grande perdita, è cambiato tutto e mi ritengo fortunato».
Lei non è sempre stato politicamente corretto, con i social cosa le sarebbe successo?
«Ora qualsiasi cosa dici rimbalza su 300 siti e ti porti dietro le conseguenze per almeno due settimane. Fai un’intervista di mezz’ora e poi si cerca il titolone per fare click, questo dà fastidio. Cosa succede? C’è un finto politically correct tra gli sportivi, sono tutti amici, si abbracciano. È bello? A me piaceva di più prima, quando si diceva quello che si pensava. È umano che ti stia sulle scatole chi fa la tua stessa cosa come o meglio di te, non importa se sei un dottore, un pizzaiolo, un pilota. Dovere nasconderlo sempre fa diventare tutto più finto».
Esistono ancora i miti dello sport, come lei, Tomba, Pellegrini? C’è un suo erede?
«Nella MotoGp abbiamo molti piloti forti, Bagnaia potrebbe diventare un trascinatore. Dopo di me il motociclismo è tornato a essere quello che era prima di me: uno sport per appassionati. Io, in qualche modo e per qualche motivo, ero riuscito a farlo conoscere alle nonne e ai bambini. Sinceramente non so il perché (ride), forse è stato un insieme dei miei risultati e del mio carattere. Jacobs ha compiuto un’impresa storica, ma per capire la grandezza di un personaggio bisogna aspettare qualche anno. Negli anni ’90 gli sportivi venivano visti come dei miti, penso a Maradona o Senna, è cambiata la cultura. Chi è il Senna di oggi? Forse Hamilton, ma neanche lui giovanissimo».
Ha corso in moto, in auto e ora dietro a sua figlia Giulietta. In quale “disciplina” bisogna essere più veloci?
«Mi aspettavo che fare il babbo sarebbe stato più difficile, ma è ancora piccola e so che quando crescerà diventerà più impegnativo. Correre in auto e in moto è più difficile, a volte la pressione e la tensione ti fanno stare male, invece con Giulietta è tutto bello».
Si parla tanto del calo delle nascite, perché secondo lei la gente non fa più figli?
«Io ho aspettato di essere veramente molto grande. Hanno tutti molta paura, soprattutto da giovani. I nostri genitori facevano i figli a 25 anni o meno, io a quell’età sarei stato disperato, non avrei saputo cosa fare! Si è un po’ più egoisti, almeno io lo sono stato, pensi che avere un bambino sia un peso e gli amici non ti aiutano, ti ricordano che non potrai più svegliarti a mezzogiorno (ride). Forse la gente è un po’ più pigra, vedono un figlio come una perdita di tempo, ma è un peccato perché è un’esperienza che consiglio a tutti».
Rimaniamo in famiglia: cosa ha provato domenica scorsa vedendo suo fratello Luca Marini sul podio della MotoGp?
«Sono contento, se lo meritava e ci voleva. Era veloce, ma serviva un bel risultato. Quando va sempre qualcosa storto, inizi a sentirti un incompiuto. Ora è pronto per essere sempre competitivo».
Smetteranno di chiamarlo il fratello di Valentino?
«Un po’ gli pesa, ma lui aveva scelto di correre in moto sapendo a cosa sarebbe andato incontro e mi aveva stupito la sua scelta. Il fatto di non chiamarsi Rossi un po’ lo alleggerisce e caratterialmente siamo agli opposti. Può avere la sua personalità».
In Argentina Bezzecchi le aveva fatto il regalo della prima vittoria per il suo team VR46.
«Mi sono emozionato, dico la verità. Fare una squadra e vincere in MotoGp non è scontato, in tanti non riescono mai. Inoltre, come anche Bagnaia, è un mio pilota nell’Academy e quello triplica le emozioni».
Che cosa darebbe per avere vent’anni in meno e correre contro di loro?
«Mi piacerebbe molto, ma i risultati ottenuti nella mia carriera mi aiutano a non sentire la malinconia. A volte, mentre guardo i gp in tv, vorrei essere lì, ma poi penso che il mio l’ho fatto. Ora tocca a loro».