La Stampa, 22 aprile 2023
Cosa c’è dietro il caso Giletti
Non c’è nulla che dia più fastidio alla mafia che la televisione. Non le piace: la tv comunica un senso della realtà difficile da dimenticare e poi raggiunge troppe persone, che poi magari prendono coraggio; la tv mostra i mafiosi per quello che sono, spesso dietro le sbarre, deboli, tutt’altro che invincibili; e loro invece sono abituati ad essere rispettati. Neanche la parola scritta, gli piace; ma quella la leggono in pochi. La televisione è peggio. Ne sapevano qualcosa sia Maurizio Costanzo, che Mauro Rostagno, colpiti proprio perché facevano vedere cose che non bisognava fare vedere. Certe volte la televisione può essere pericolosissima, prendete il caso della famosa intervista di Paolo Borsellino alla rete francese Canal + in cui il giudice spiegava i rapporti tra Cosa Nostra e Berlusconi: se fosse stata resa pubblica dopo la sua morte, Berlusconi non avrebbe osato intraprendere la carriera politica. Ma, come forse qualcuno ricorda, non andò mai in onda. (Però, oggi la potete vedere su YouTube e sobbalzare, per quanto è attuale).
Il binomio mafia-televisione è tornato di attualità in questi mesi e sta al centro di una notevole conversazione pubblica: è il “caso Giletti”, con le sue clamorose rivelazioni in diretta, culminate con la chiusura improvvisa del programma e un retrogusto di mistero. Chi è veramente questo Baiardo, un gelataio capace di profetizzare, con due mesi di anticipo, il giorno della cattura di Matteo Messina Denaro? Esiste davvero la fotografia del boss mafioso insieme all’imprenditore e al generale dei carabinieri in piacevole colloquio sul lago d’Orta? Davvero tutto l’arresto di Salvatore Riina fu una colossale messa in scena? E chi sono veramente questi tenebrosi fratelli Graviano, ancora oggi in grado di ricattare lo Stato?
Sono storie di trent’anni fa – la mafia, da tempo, è modernariato – ma pare riescano a suscitare ancora un grande interesse. E questo è senz’altro il merito della televisione: è veloce. Devo confessare che, essendomi dedicato per anni a questi misteri senza suscitare alcun interesse in chi dovrebbe essere interessato, sono un po’ geloso della potenza e della libertà del mezzo televisivo; in questa storia, cerco di essere utile alla comprensione del tema, in quanto “persona informata dei fatti”, e così spero facciano altri. Perché la tv è sì veloce, ma spesso le manca lo spessore della storia.Per prima cosa, conosciamo i personaggi.
I fratelli boss
Partiamo dai misteriosi fratelli Graviano. Sono due, Filippo (nato nel 1961) e Giuseppe (nato nel 1963), boss del quartiere Brancaccio di Palermo. Passati sotto i radar negli anni Ottanta (sono condannati al maxiprocesso, ma a pochi anni), diventano potentissimi e ricchissimi “urban developers” di Palermo: la loro opera più grandiosa è un grande albergo di lusso, il San Paolo Palace Hotel, al centro del loro malfamato quartiere, che diventa il luogo di incontro dell’élite della città, dai politici ai magistrati, agli investigatori e ai sindacalisti, che entrano nella hall sfiorando i locali della “camera della morte” in cui la mafia del quartiere ha eliminato qualche centinaio di nemici. Nell’attico abita la madre dei due, cui il clan è devoto, come al vero Capo (Invece che Godfather, la chiamano Godmother).
All’inizio degli anni Novanta il clan dichiara di voler trasferire la propria residenza e la propria attività economica nel Nord Italia e in Svizzera. Non figurano tra i sospetti, né tra gli esecutori delle stragi del ’92-’93, ma vengono considerati i mandanti dell’omicidio di don Puglisi avvenuto nel settembre 1993, nel loro quartiere. Vengono arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, in un ristorante alla moda con le loro fidanzate. Sono al 41 bis da allora.
Il gelataio fiancheggiatore
E un signore di Omegna, provincia di Verbania; tra il ’91 e il gennaio 1994 ha organizzato nella cittadina la residenza dei Graviano, facendo loro da autista, organizzando le loro vacanze e introducendoli nell’ambiente cittadino. Per questo motivo subì un arresto nel 1995 e fu condannato in appello a Palermo nel 1999 per “favoreggiamento” (essendo cadute le accuse di associazione per delinquere di stampo mafioso e di riciclaggio di denaro).
È il personaggio televisivo del momento; ha predetto l’arresto di Messina Denaro, ha promesso altre grandi rivelazioni e ha mostrato (mano sua) a Giletti una fotografia (tipo Polaroid) in cui si vedono – a suo dire – Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino seduti a un tavolino di un bar in quella che sembra la piazza principale di Orta-San Giulio, luogo incantevole e turistico. Vestiti primaverili, probabile anno 1992. Giletti ha riferito questa circostanza ai pm di Palermo che indagano sulla vicenda; gli stessi hanno intercettato Baiardo che parla con Giletti della fotografia; Baiardo non risulta incriminato per alcunché. In seguito a questi fatti, Urbano Cairo, editore de La7, ha chiuso la trasmissione.
Il generale dei carabinieri
Francesco Delfino (generale dei carabinieri e superagente del Sismi, morto in disgrazia nel 2014) viene indicato come il terzo uomo della fotografia, insieme a Berlusconi e Graviano. Possibile? Un tempo si sarebbe detto: impossibile e assurdo; ora però non più. Da qualche tempo si parla parecchio del suo vero ruolo nella cattura di Riina. Secondo Graviano stesso, e Baiardo di rimando, il famoso pentito Balduccio Di Maggio, che guidò i carabinieri alla cattura del capo dei capi, sarebbe stato convinto a farsi arrestare, a Borgomanero, pochi chilometri da Omegna, in cambio di molto denaro dal Graviano medesimo, in accordo con il generale (non nuovo a queste operazioni spregiudicate). Delfino, in compenso dell’aiuto ricevuto da Graviano, gli avrebbe fatto avere una “favolosa protezione” per le sue malefatte e i suoi affari. Che Delfino potesse conoscere Berlusconi non deve stupire; i due erano in contatto fin dai tempi dei sequestri di persona a Milano. Il primo come investigatore, il secondo come potenziale vittima. Berlusconi, peraltro, quando costruì Milano Tre, ci volle una stazione dei carabinieri, che regalò ai carabinieri stessi, che dall’epoca sono grati (Ed è tornato alla mente che Giuseppe Graviano ha fatto sapere di aver avuto un appartamento a disposizione a Milano 3 e l’ha collocato «nei pressi della stazione dei carabinieri»).
La gloria di Delfino per l’arresto di Di Maggio e quindi di Riina durò poco: nel 1998 fu lui stesso arrestato per aver estorto un miliardo alla famiglia di un notissimo industriale bresciano, suo amico, Giuseppe Soffiantini, in cambio della sua liberazione da un lunghissimo rapimento. Si scoprì all’epoca che non era la prima volta che il generale si comportava così; amava molto il lusso e perdeva al gioco.
Il killer pentito
È uno dei pentiti di mafia più famosi; di recente si è parlato di lui, perché a 26 anni dal suo arresto, è tornato un uomo libero a tutti gli effetti. Killer del quartiere Brancaccio, Spatuzza venne arrestato per l’omicidio di don Puglisi e per la partecipazione alla strage di via dei Georgofili, ma rimase una figura di secondo piano fino al 2009, quando – al termine di «un percorso di pentimento religioso» certificato addirittura dal vescovo dell’Aquila – venne presentato all’opinione pubblica con una bomba: Spatuzza disse di essere stato lui a preparare l’attentato Borsellino, distruggendo dalle fondamenta tutto il lavoro – quindici anni – degli investigatori e dei giudici di Caltanissetta che avevano presentato un altro colpevole – un ragazzo di borgata di nome Vincenzo Scarantino – come l’organizzatore dell’eccidio. Scarantino aveva chiamato correi un’altra dozzina di persone che erano al 41 bis: erano completamente innocenti. Si trattò della peggior débacle in tutta la storia della lotta alla mafia, cui la magistratura reagì con imbarazzato silenzio.
Ma Spatuzza era un fiume in piena: rivelò di essere stato lui ad aver compiuto gli attentati di Roma, Firenze, Milano; di essere agli ordini dei fratelli Graviano, disse che questi avevano protezioni molto importanti e che erano soci in affari di Dell’Utri e Berlusconi, essendo stati tra i primi finanziatori dell’impero Fininvest. I Graviano, poi, avevano aiutato Forza Italia a vincere le elezioni del 1994. Tutte queste accuse, però, non vennero riconosciute come credibili dalla magistratura.
Ma, a confermarle, con sempre maggiori dettagli ci hanno pensato proprio i Graviano, che negano – naturalmente – di essere gli autori delle stragi, ma non negano, anzi rivendicano i loro rapporti con Berlusconi. Secondo Giuseppe Graviano, autore di una recente (e pregevole per chiarezza) memoria difensiva, la sua famiglia ha contribuito con il venti per cento del capitale iniziale Fininvest e Berlusconi gli aveva promesso di rendere questo contributo palese, invece che occulto. Quando? In un incontro a Milano nel gennaio 1994, alla presenza di avvocati, dopo essersi assicurato l’appoggio dei Graviano per la campagna elettorale. E invece? E invece, sostiene Graviano, «mi ha fatto arrestare!».
Sono le fantasie di chi sta da troppo tempo in carcere? Naturalmente sì – la Fininvest nega qualsiasi cosa – ma… E qui comincia la storia che rende così appassionante la vicenda televisiva attuale.
Partiamo dalla “sera delle beffe”. 27 gennaio 1994, in tarda mattinata Salvatore Baiardo da Omegna accompagna Filippo e Giuseppe Graviano a Milano, con la sua Mercedes 190: vanno a fare shopping (Giuseppe è un patito dello shopping). Li lascia in centro e poi torna al paese. La sera apprende che sono stati arrestati, ma lui non lo vengono a cercare. Eppure i Graviano hanno tutta la loro roba lì: vestiti, documenti. O no? A forse avevano un’altra casa a Milano? Non si saprà mai, perché dopo l’arresto, compiuto in circostanze fantozziane, non seguono gli atti che normalmente si accompagnano, perquisizioni, ricerca dei telefonini, indagini sui documenti falsi. Niente. Nel nostro caso ci sono solo i camerieri del ristorante che riferiscono che i Graviano erano clienti abituali e che spesso venivano con la loro madre (e si facevano il segno della croce prima di mangiare). E la signora, dove alloggiava quando veniva a Milano?
Baiardo, comunque, sta tranquillo, anche se a Omegna vedono le foto dei boss arrestati che assomigliano tanto a quei distinti industriali siciliani (si erano presentati così) «in viaggio di affari», e qualcuno si preoccupa un po’ perché hanno avuto business con loro; dopo un anno (senza clamore) Baiardo viene arrestato dalla Dia di Firenze. Accuse pesantissime: hanno rintracciato il suo telefono e lo hanno collegato a una villa di Forte dei Marmi in cui, dicono, è stato preparato l’attentato di via dei Georgofili; lo accusano di aver riciclato miliardi e miliardi dei Graviano al Nord, fanno i nomi di Dell’Utri e Flavio Carboni (il riciclatore del caso Calvi). Baiardo parla? Lui dice di no, ma c’è una cosa strana: alla fine, per lui, in un processo stralcio presso la Corte d’Appello di Palermo, la condanna è solo per favoreggiamento. Caselli, all’epoca procuratore capo di Palermo avrebbe voluto l’associazione con 416 bis, ma si è imposto Vigna, allora procuratore capo a Firenze. No, solo favoreggiamento. Così invece di andare al 41 bis, Baiardo torna a casa, anche se lo metteranno di nuovo in carcere per alcuni mesi nel 1998. Non sarà per caso che Baiardo ha vuotato il sacco? Lui nega. Anzi, proprio in virtù di essere solo un favoreggiatore, nel 2011 fornisce un alibi (falso) per Giuseppe Graviano, che a questo punto è accusato da due pentiti di aver partecipato materialmente all’eccidio di via D’Amelio. «No, era con me a Omegna quel 19 luglio 1992». Non lo prendono neppure in considerazione. Non lo denunciano nemmeno, però.
Il fatto è che tutta questa storia dei Graviano, all’epoca non sembra interessare proprio nessuno. La magistratura ha imboccato un’altra strada e assiste felice ai suoi successi: Riina è stato catturato e Di Maggio ha rivelato il “bacio” con Andreotti; il ragazzo Scarantino è stato il factotum del delitto Borsellino. Sì, ci sono state delle bombe in continente, ma sono dovute a un ricatto della belva Riina contro lo Stato: la famosa “trattativa”, rivelata da uno dei tanti falsi pentiti; parte un’inchiesta che impegnerà i migliori eroi dell’antimafia, coinvolgendo ministri, governo e addirittura il presidente Napolitano, in cui tutti hanno un ruolo e solo i Graviano sono dimenticati. Solo dopo trent’anni si è stabilito, in un’ aula giudiziaria, che il “caso Scarantino” è stato «il più grande depistaggio della storia italiana», ma si è evitato di dire che a questa impostura ha partecipato, volenterosamente, tutta la magistratura italiana, spalleggiata dal miglior giornalismo. È passato praticamente inosservato che l’ormai famoso Spatuzza, dodici anni prima di pentirsi di fronte al vescovo, aveva già spifferato tutto, alla Dia e alla procura nazionale antimafia. Tutto, ma proprio tutto: addirittura nel 1998, nel carcere speciale di Tolmezzo, dove aveva chiesto e ottenuto di essere messo vicino a Filippo Graviano, davanti alle orecchie attente dei procuratori nazionali Vigna e Grasso.
Racconta Spatuzza: sono stato io, per ordine dei Graviano, il loro rapporto con Berlusconi è la chiave di tutto. E poi, un sacco di particolari: Omegna, il riciclaggio, Baiardo, le vacanze del 1993, uno strano viaggio estivo in Sardegna. Naturalmente, ha poi aggiunto che quella di Scarantino era un’impostura ordita dalla polizia. Certo, stupisce un po’ che i vertici della magistratura non abbiano fatto tesoro di queste informazioni, per dodici anni; e che non si siano adoperati nemmeno per togliere dalla galera una dozzina di ingiustamente accusati. Dispiace, ma le cose andarono così. Nello stesso anno, abbiamo uno Spatuzza che spiffera tutto e un Baiardo graziato come semplice favoreggiatore. Forse il procuratore Vigna aveva anche lui un piano.
E per quanto riguarda i fratelli Graviano, furono trattati con tutto il rispetto: un 41 bis che sembra un grande albergo, dove i due fratelli si sposano, figliano, ricevono i loro avvocati, trasferiscono i loro capitali, depistano, inquinano, e ogni tanto ricordano che sono loro a essere in dcredito, con la Fininvest in particolare. Per il resto, sembrano abbiano fatto pace con tutti; Filippo si è dissociato ufficialmente, Giuseppe da tempo collabora con i pm di Firenze, non sono irritati con Spatuzza che ha rivelato i loro affari, quanto con Berlusconi che lo ha fatto arrestare e poi non ha rispettato i patti. Da anni hanno rivelato i misteri della cattura di Riina e il ruolo del generale Delfino, ma stranamente non hanno trovato orecchie disposte a sentirli; la loro versione della faccenda, infatti, mina alle basi tutta la retorica della lotta alla mafia. Dice infatti Giuseppe Graviano: Riina ve lo abbiamo consegnato noi, sappiatelo. Anzi, ringraziateci due volte, perché avremmo potuto farlo fuggire. Il fido Baiardo, recentemente da Giletti, ha confermato. Non solo, ma poi ha fatto sapere che la stessa cosa è successa con Messina Denaro: sono stati i Graviano a consigliargli di farsi prendere. Già: e se fosse andata proprio così? Sta a vedere che lo sapevano tutti.
Grande potenza della televisione: ora tutti si appassionano alla vicenda. Grande errore di Giletti: è andato a toccare dei fili scoperti, da cui l’Italia ormai pacificata da trent’anni, ha cercato di stare lontana. Per fortuna di tutti – della storia d’Italia, soprattutto – Giletti è stato fermato in tempo. Dispiace per il licenziamento della sua squadra, ma si troverà senz’altro una soluzione.—