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 2023  aprile 22 Sabato calendario

L’urgenza di Vinicio Capossela. Colloquio con Ermanno Cavazzoni

In ogni impresa cavalleresca che si rispetti è importante avere al fianco qualcuno su cui contare. Il cantautore Vinicio Capossela l’ha trovato nello scrittore e saggista Ermanno Cavazzoni, «un maraviglioso compagno d’arme». In occasione dell’uscita del nuovo disco, Tredici canzoni urgenti, «la Lettura» ha incontrato l’artista e lo scrittore per una conversazione, intorno ai temi e testi delle canzoni, che si è svolta in un luogo speciale, la Rocca dei Boiardo, la «casa» dell’autore dell’Orlando innamorato Matteo Maria Boiardo (1441- 1494), con Ludovico Ariosto uno dei padri del poema cavalleresco. La rocca è a Scandiano in provincia di Reggio Emilia dove Capossela è cresciuto e dove torna spesso.
«Tredici canzoni urgenti»: perché tredici? Perché urgenti?
VINICIO CAPOSSELA – Tredici sono venute in conseguenza di uno in più di dodici che è numero ciclico, un numero d’ordine. Il tredici impone un disordine, richiede una sorta di cambiamento. È un numero strano, l’unico che genera una fobia: la triscaidecafobia.
Di questi tredici brani il primo che ha scritto è stato «Ariosto governatore», dopo una visita a Castelnuovo di Garfagnana (Lucca): cinquecento anni fa, nel 1522, il poeta Ludovico Ariosto fu per un periodo amministratore della Garfagnana.
VINICIO CAPOSSELA – Ho studiato le lettere che Ariosto scrive nell’esercizio della sua funzione: si ritrova lo scoramento di non riuscire a incidere nella realtà, il rendersi conto di non avere da offrire che parole in una realtà di violenza e sopraffazione. Ho iniziato a scrivere queste canzoni con quello stesso disarmo: non abbiamo da offrire che parole, la nostra partecipazione è sempre soltanto di idee. Sono tredici canzoni e parlano delle urgenze di oggi, da qui il titolo.
ERMANNO CAVAZZONI – Per quanto riguarda Ariosto, è vero: detestava il lavoro di governatore, lo trovava insopportabile. Un pensiero più saggio che mai, oggi che tutti aspirano a comandare. Perfino le donne. Vogliono essere loro a dare gli ordini? Magari. È uno dei lavori più orrendi che possano esserci. Ariosto lo dice: voglio tornare alla mia poesia.
VINICIO CAPOSSELA – È un grande privilegio stare da poeta nella torre d’avorio o di mattoni. Poi però arrivano per Ariosto le guerre d’Italia. Giganti e mostri non sono quelli della fantasia ma della realtà. Come lascia intendere: se il senno è sulla Luna allora sulla Terra non è rimasta che follia. I giganti mi hanno sempre fatto simpatia, ho letto la Storia naturale dei giganti di Cavazzoni. Il gigante è uno che non trova posto nel mondo. Ti mangia, certo, ma puoi non andargli vicino. Ben diverso è l’archibugio.
All’arma micidiale capace di uccidere a distanza, «maledetto» e «abominoso ordigno» come lo chiama Ariosto nell’«Orlando furioso», Capossela ha dedicato «Gloria all’archibugio» in cui cita proprio i versi del poeta.
ERMANNO CAVAZZONI – Cosa mi attrae nei giganti? La coglionaggine. Fanno sempre la parte di grandi, grossi e stupidi. Quando crollano fanno ridere. L’Aretino fa finire così l’ultimo gigante: con una grande scoreggia nella sala del trono che solleva un gran polverone. Luigi Pulci nel Morgante fa di un gigante il protagonista del poema, Boiardo racconta di uno che monta su un grifone e quando arriva sui duemila metri il grifone lo butta giù, lui cade e c’è il cavaliere che se lo vede arrivare addosso dall’alto... Sono pezzi di straordinaria comicità. L’effetto comico è un tratto che c’è anche nei testi di Vinicio.
Come nel brano «Il divano occidentale» dove l’epica dell’avventura diventa stare seduti sul divano...
ERMANNO CAVAZZONI – «Sedere» è la parola al centro della canzone («Il tuo sedere, il mio sedere»). Mentre il brano Bene rifugio è una dichiarazione d’amore che usa parole impoetiche, prese dal linguaggio quotidiano («Il mondo cade a pezzi/ il gas sale alle stelle/ l’alluminio rincara»). Sono testi che appartengono a una tradizione che oggi è un po’ dimenticata, quella della satira. Orazio, Persio, Giovenale: significa parlare della vita quotidiana ma guardandola dall’alto, come dalla Luna, con stupore. In All you can eat canta: «Se non c’è principio né speranza allora mangia». La comicità dice sempre enormi verità che stanno sotto gli occhi di tutti. A Bologna, dove vivo, vedo chi fa la fila davanti a luoghi così.
Sono canzoni che fanno ridere ma sanno a toccare sul vivo, pungolare.
VINICIO CAPOSSELA – Satira viene dal latino satura lanx, piatto abbondante nel senso che dentro c’è una grande varietà di cibi. Sono sempre stato un po’ plurimo. Mi piace spalmare di ingredienti il piatto. Ed è come si diceva: anche una questione di distanza, per me indispensabile per poterne parlare senza esserne fagocitato o inghiottito. A volte la satira è un mezzo, a volte è un fine. Nel mio caso la satira fa parte del gioco.
E proprio il gioco, nella sua accezione più ampia, è tra i temi che ricorrono più felicemente nel disco.
VINICIO CAPOSSELA – Nel gioco si cessa di cercare l’utile, lo scambio avviene più nei termini del dono che non del valore. Così la canzone Il tempo dei regali fa riferimento a un libro dello scrittore inglese Patrick Leigh Fermor nella cui visione c’è sempre un senso di gratitudine per l’incontro quale esso sia.
Un passo della canzone recita: «Abbiamo colto il frutto dell’incontro/ e bevuto alla coppe dei saggi/ (...)/ quel che sembrava sfortuna era un dono».
ERMANNO CAVAZZONI – Nella vita tutto, se uno vuole, può essere un regalo. Pensavo agli ex voto, che esprimono sempre un ringraziamento: perché uno è ancora vivo; perché si è rotto una gamba e non è andata peggio...
In «Staffette in bicicletta» il ritmo è quello incalzante e spensierato di una pedalata...
ERMANNO CAVAZZONI – I nomi sono quelli delle staffette partigiane («Vanda, Gina/ Rina, Rosina/ Bruna, Antonia...»), nomi alla Gozzano «che sanno di bucato». Per il modo in cui sono scanditi somigliano alle conte per bambini.
VINICIO CAPOSSELA – Quei nomi stanno su un muro qua vicino, da soli hanno la forza evocativa di un mondo. Quando penso alla Resistenza penso sempre alla gioventù, se leggi le lapidi scopri che hanno diciotto, vent’anni.
Atmosfere da gioco si ritrovano anche nel «Cha cha chaf della pozzanghera»: quando un bambino gira attorno a una pozza d’acqua anziché saltarci dentro vuol dire che è cresciuto...
VINICIO CAPOSSELA – Sì, comincia a pensare alle conseguenze dei suoi gesti. Poi da adulti pestare le pozzanghere è un’occupazione di chi ha tempo da perdere. Quanto all’infanzia siamo in un mondo che tende a non farci uscire da una condizione di infantilismo e a far perdere di vista la vera forza di quell’età, ovvero il fatto che è il momento più anarchico che abbiamo a disposizione, quello in cui si fa meno caso alle conseguenze.
In questo senso la bugia è la forma di infantilizzazione perfetta. Il tema è centrale nel nuovo libro di Cavazzoni «Il gran bugiardo» (La nave di Teseo).
ERMANNO CAVAZZONI – Una delle passioni da bambini è quella di vestirsi: da cowboy, da indiani, da qualcosa che non sei tu. La bugia che mi interessava era questa, di quando uno recita una parte e si chiede: sto ingannando tutti? Credo sia connaturata all’uomo, soprattutto a chi lavora nel campo artistico.
VINICIO CAPOSSELA – Piccole bugie oppure grandi: quando un pallone della Cina va sopra un altro Stato e come i bambini si nega l’evidenza. La verità non esiste in maniera oggettiva, ma più siamo in tanti a credere qualcosa e più questa diventa vera. Sono molto colpito dalla disinvoltura con cui si cambia di segno alle bandiere ideologiche. Penso alla celebre frase di Brecht «Ci sedemmo dalla parte del torto» (ripresa dal cantautore nel brano La parte del torto, ndr): cambia la bocca che la pronuncia e ti chiedi come è possibile. Come se all’interno di uno stesso perimetro i fattori siano interscambiabili. La bugia esiste in relazione a una verità, l’una e l’altra oggi non hanno una connotazione chiara.
In un’intervista su «la Lettura» #556 del 24 luglio 2022 con Alessia Rastelli, disponibile nell’App, riguardo la guerra diceva: «Occorre lavorare incessantemente sulla consapevolezza». Forse le sue tredici canzoni aiutano a stare con i piedi per terra con leggerezza.
VINICIO CAPOSSELA – I piedi per terra sì, però nel fango e nella pozzanghera, bisogna sporcarsi i piedi. Cinquecento anni dopo Ariosto, l’archibugio è diventato il drone, il missile nucleare. La guerra non è mai cessata, ma quest’ultima iniziata il 24 febbraio 2022 è devastante anche per il carico di mistificazione e propaganda che la accompagna e che la rende ancora più odiosa. È una sorta di apocalisse servita a dosi quotidiane.
ERMANNO CAVAZZONI – Queste canzoni sono delle preoccupazioni sotterranee che toccano tutti.
Il brano «La crociata dei bambini» è uscito il 24 febbraio per anniversario della guerra in Ucraina.
ERMANNO CAVAZZONI – La crociata dei bambini è un episodio medievale, una storia mitica, incredibile. Da Francia e Germania partono due bambini e lungo il cammino se ne uniscono altri, arrivano a essere migliaia. Sembra la storia del pifferaio magico, ma finisce male. Vogliono andare a liberare il sepolcro di Cristo, a Gerusalemme; senza armi, arrivano a Genova pensando che il mare si sarebbe aperto. Poi vengono caricati su navi, alcuni fanno naufragio, altri arrivano in Africa e sono venduti come schiavi.
VINICIO CAPOSSELA – Sono partito da Bertolt Brecht, in una ballata aveva ripreso la storia ambientandola nel 1939 in Polonia. Anche Sting nel suo primo album solista, The Dream of the Blue Turtles ha scritto una Children’s Crusade.
In «La cattiva educazione» canta «Questa mattina non mi son svegliata/ e l’invasore ce l’avevo in casa», riflette sulla violenza e sul fatto che c’è qualcosa di sbagliato nel percorso che ha portato l’uomo fino a qui..
VINICIO CAPOSSELA – È così. Il crimine, il delitto, l’assassinio, la violenza in generale sono l’ultimo stadio di un processo che parte da molto prima e che viene da una cultura che abbiamo interiorizzato. Serve un confronto vero. Purtroppo c’è una carenza pedagogica, ad esempio l’educazione alla gestione delle emozioni è un aspetto importante: chi ti insegna a gestire un abbandono? Un rifiuto? Un dolore? La cultura – tra virgolette predatoria – parte da lontano e occorre fare del lavoro: non è semplice, ma è necessario.
Nelle canzoni si ritrova e si rinnova il lavoro sulla lingua: si sente lo sforzo e il piacere di fare risuonare l’italiano.
ERMANNO CAVAZZONI – Il verso «Tanto girò che venne a una riviera» in Ariosto governatore è un modo per agganciarsi alla tradizione della lingua alta della poesia. «Riviera» per dire fiume è un termine non più in uso, qui fa rima con «selva fiera».
VINICIO CAPOSSELA – E rimanda a «altra selva» del verso dopo. Non ho avuto la fortuna di studiare le lingue, cosa che mi avrebbe appassionato, ma nell’italiano del Cinquecento scopri davvero le parole. Come le macchine che quando apri il cofano guardi il carburatore e capisci come funzionano. Ariosto usa un italiano che rinnova lo stupore nel lettore davanti a parole che sono andate cambiando di significato o di riferimento.
Delle tredici qual è stata l’ultima?
VINICIO CAPOSSELA – Minorità. È stata anche la più lunga da scrivere, parla del carcere e di cosa davvero ci impedisce di diventare uomini. Mi sono avvicinato per ragioni diverse al mondo della detenzione; la prima cosa che colpisce è la riduzione in stato di minorità, una progressiva sottrazione di responsabilità ad opera della burocrazia: una condizione funzionale all’esercizio del potere.
ERMANNO CAVAZZONI – Questa condizione è stata l’utopia realizzata nei regimi sovietici. Uno aveva casa, lavoro, da mangiare e non era responsabile di niente, a tutto pensava lo Stato. Un regime da pensionati...
Infine, la canzone che chiude l’album «Con i tasti che ci abbiamo» invita ad accettarci per come siamo.
ERMANNO CAVAZZONI – Il senso qui è che siamo esseri imperfetti, incompiuti. Ma uno se la cava comunque, anche se tutti i tasti non sono accordati e non funzionano come si deve.